La notte dell’11 luglio di appena un anno fa, quasi ogni italiano si riversava nelle strade e nelle piazze delle città della penisola per celebrare e festeggiare uno degli apici della nostra storia calcistica e sportiva. L’Italia, dopo 53 anni, tornava sul tetto più alto d’Europa dopo aver regalato a un popolo intero un mese storico e indimenticabile. Appena 8 mesi dopo, però, quello stesso gruppo ha scritto una delle pagine più tristi e buie del calcio tricolore, mancando la qualificazione al mondiale da disputarsi in Qatar il prossimo inverno. Cos’è successo? Quali sono le ragioni che hanno portato a una disfatta così grande?

1- Eccessiva sicurezza. Indubbiamente, l’Italia partiva con i favori del pronostico contro la Macedonia del Nord. Il clima dei giorni precedenti il match è stato caratterizzato da un generale e condiviso ottimismo che spesso è trasceso in ostentata certezza. Il pensiero era proiettato alla sfida di martedì. La mente e i sogni erano già orientati sull’eventuale finale contro il Portogallo da giocare a in terra nemica, lo scenario migliore e più epico per centrare la Coppa del Mondo.

Purtroppo, si è dato per scontato l’impegno casalingo contro i macedoni, sottovalutando non tanto la forza dell’avversario, mediocre e non a livello degli azzurri, ma il peso della storia, l’importanza della partita, soprattutto alla luce di quanto successo 5 anni fa. Lo stesso Mancini ha provato a caricare la squadra, parlando di ipotetica vittoria della kermesse mondiale, bypassando lo snodo fondamentale di questo doppio spareggio, forse per infondere sicurezza nel suo gruppo. La scelta, funzionale e vincente due anni fa, quando affermò che la nazionale avrebbe vinto gli Europei, ha ottenuto esiti opposti.

2- Occasioni mancate. Sfogliando l’album dei ricordi, è inevitabile soffermarsi sulle due foto che più hanno determinato il cammino azzurro verso i mondiali in Qatar. I rigori sbagliati da Jorginho contro la Svizzera, nella gara di andata e di ritorno, gridano ancora vendetta. Due partite dominate in lungo e largo contro un avversario spazzato via 3-0 nel girone di Euro 2020 lo scorso giugno. Due incontri finiti in pareggio che sono costati punti preziosi e vitali. Gli stessi che sono stati lasciati per strada contro la Bulgaria a Firenze e contro l’Irlanda del Nord a Belfast.

Dopo il trionfo di Wembley, i ragazzi del Mancio hanno perso smalto, smarrendosi e sfidando un destino che è stato avverso fino all’ultimo. Gli infortuni, in aggiunta, hanno peggiorato una situazione critica in vista dei playoff. Il forfait di Spinazzola, uno degli uomini più rappresentativi e importanti della spedizione europea era assodata. La vera e definitiva mazzata è sopraggiunta con lo stop di Federico Chiesa, il calciatore più decisivo e talentuoso a disposizione di Roberto Mancini. Due giocatori con due ruoli diversi, ma con la capacità di saltare l’uomo e creare superiorità numerica con conseguenti occasioni per segnare, esattamente quello che è mancato giovedì sera.

3- Riconoscenza e forma fisica non ottimale. Lippi, nel 2010, scelse di puntare su gran parte del blocco che 4 anni prima lo aveva condotto sul tetto del mondo. Calciatori che, a prescindere dal loro status di campioni, non erano più al top della forma. Un sentimento di riconoscenza e garanzia alla base delle scelte che non aveva portato i frutti sperati. Mancini ha fatto del gruppo della scorsa estate la vera forza della nazionale. Mentre gli altri allenatori avevano al loro cospetto delle selezioni, l’allenatore di Jesi era riuscito a creare una vera e propria squadra. Un percorso iniziato con le qualificazioni e consolidatosi con la vittoria dell’11 luglio. L’apice di un mese perfetto in cui tutti gli ingranaggi avevano funzionato. Giovedì sera, però, non è andata nella stessa maniera.

Il C.T. ha fatto affidamento sui suoi uomini, sull’esercito che lo ha condotto alla battaglia di Wembley. Cosa è cambiato? Molti, complici le fatiche di una stagione logorante e lunga, non si sono presentati nella forma fisica e mentale migliore. Infortuni, prestazioni sottotono in campionato e scorie precedenti non hanno aiutato. C’era chi invocava nomi nuovi, giovani cavalli rampanti pronti a prendersi la scena, come Scamacca (anche se non al top), Tonali e Calabria, addirittura non convocato. La fortuna, questa volta, è stata avversa e la dea bendata ha guardato dall’altro lato, dimenticandosi dell’Italia.

4- Talento puro. Le partite come quella giocata contro la Macedonia del Nord al Renzo Barbera di Palermo sono all’ordine del giorno. La squadra più debole pensa, immagina e realizza l’unica partita possibile contro un avversario nettamente superiore. Tutti dietro la linea della palla, difesa a oltranza e alla prima distrazione l’obiettivo e segnare. Così è andata. L’Italia ha dominato 90′, benché l’estremo difensore macedone non abbia dovuto compiere parate difficili. Gli azzurri hanno controllato la metà campo avversaria in modo netto e incontrastato, perdendosi, però, negli ultimi 20 metri. Innegabilmente, alla nazionale è mancato un giocatore in grado di risolvere la partita con un colpo, una giocata, una fiammata.

L’assenza di Chiesa, l’unico giocatore dotato di queste caratteristiche, è pesata come un macigno. I suoi strappi durante la scorsa estate sono stati spesso decisivi per bucare difese che sembravano impossibili da valicare. Contro la Macedonia del Nord è mancato questo, il talento puro di una figura capace di invertire le sorti della sfida.

5- Un edificio da ricostruire. La Spagna, dopo aver dominato Europa e mondo tra il 2008 e il 2012, ha avuto un crollo inesorabile e inaspettato. Fuori ai gironi nel mondiale brasiliano del 2014, fuori agli ottavi ad Euro 2016 e a Russia 2018. Dopo aver toccato il fondo, in soli tre anni, la Roja è stata in grado di rialzarsi, annoverandosi come una delle future candidate a dominare il calcio mondiale. Prima la semifinale europea, poi la finale di Nations League.

La Spagna ha saputo rinnovare, inserendo i nuovi volti del calcio iberico, da Pedri e Gavi, passando per Ansu Fati e Ferran Torres, arrivando a Eric Garcìa e Rodri. Una cultura che, tuttavia, è insita nel calcio spagnolo da molto tempo, quella che vede i giovani in primo piano, sempre e comunque, le vere risorse dei club. La paura di fare giocare un ragazzo di 19 anni senza esperienza non c’è. Se ha talento, deve scendere in campo. Gavi, un 2004, spesso è titolare nel meraviglioso Barcellona di Xavi.

In Italia, purtroppo, questo non avviene quasi mai. Quando capita, invece, si tende a non dare fiducia, finendo per accantonare i ragazzi dopo alcune prestazioni deludenti e non ancora all’altezza. Il problema, però, non si esaurisce qui. Sin da bambini, nelle scuole calcio, si insegna e si trasmettono i valori del dover vincere a tutti i costi, spesso senza concentrarsi sui principi del calcio, senza focalizzarsi sulla tecnica. In Italia, per ripartire, urge cambiare cultura ed erigere un edificio nuovo, con fondamenta stabili e durature. Il percorso è lungo.