A tu per tu con Sergio Pellissier

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Bandiera da calciatore, guida dirigenziale dopo il ritiro. La storia tra il chievo e Sergio Pellissier è di quelle inscindibili, che creano un livello di simbiosi per cui risulta difficile riconoscere il singolo componente. Pellissier ha rappresentato il Chievo da calciatore e continua a farlo da direttore sportivo e con lui abbiamo parlato del suo nuovo mestiere e di alcuni ricordi di campo.

DIRIGENTE

Sono ben 17 le stagioni vissute in maglia gialloblu da Sergio Pellissier. Dal 22 settembre 2002, giorno dell’esordio, all’addio del 25 maggio 2019. Una carriera dedicata al Chievo, un impegno mantenuto anche dopo aver appeso gli scarpini al chiodo, quando entra nei quadri dirigenziali della società, prima come responsabile dell’area tecnica, poi ottenendo il diploma da direttore sportivo.

È un lavoro nuovo e come tutti i lavori nuovi bisogna imparare, avere pazienza e capire cosa richiede la nuova professione.

Il pensiero di un ruolo in area dirigenziale balenava già nella mente di Pellissier, anche quando giocava. Era una deriva naturale, necessaria conseguenza della sua personalità.

Sono più portato per questa area, piuttosto che per allenare. Sono molto diretto, mi da fastidio se qualcuno non fa quello che dico, mi prendo le mie responsabilità ma voglio che gli altri facciano quello che dico io e non sempre questo succede in una squadra. Bisogna anche saper gestire delle situazioni, io sono più schematico e quindi allenare non faceva per me. Da dirigente posso dire quello che penso, trovare le soluzioni, è la professione giusta per me.

Un modello, importante, Pellissier lo ha avuto per tutta la sua carriera a Verona e da lui non ha potuto fare altro che imparare.

Io ho avuto per 15 anni Sartori, per me è un esempio. Ha dimostrato di essere uno di più abili nel suo campo, è un esempio per me e per chiunque voglia intraprendere questa carriera.

Scegliere i giocatori è una delle peculiarità di un direttore sportivo, sicuramente è il nodo cruciale, almeno a livello mediatico. Anche se fa questa professione da poco, Pellissier ha le idee ben chiare sulle caratteristiche che cerca in un giocatore e sulla situazione del mercato.

Non tutti i giocatori sono adatti per tutte le squadre, ad esempio un giocatoreche va bene per il Chievo non è detto che vada bene per la Juventus. Bisogna valutare tante cose, ci sono i campioni, i giocatori normali. Oltre la tecnica va considerata la mentalità del giocatore, un giocatore va visto a 360 gradi.

Abbiamo portato il nostro calcio a dare un posto in squadra anche a giocatori che non lo avrebbero meritato. Con le nuove regole i nostri giovani sono obbligati a giocare, anche se non sono pronti, perché magari rientrano in determinate categorie. Il giocatore straniero invece quando arriva in Italia spesso prende meno, ma si impegna di più, perché vuole dimostrare il proprio valore. In Italia tutto è dovuto, negli ultimi anni si è pensato che facendo giocare i giovani, questi sarebbero esplosi, ma non è così. Nel calcio, come nella vita, ci sono le varie categorie, ognuno merita quel che merita. Se un ragazzo è forte, comunque giocherà. Se un giocatore non è forte prima o poi verranno fuori le difficoltà. I giocatori stranieri li selezioni, li prendi perché sono forti, sanno che devono conquistarsi il posto e niente gli è dovuto, come magari capita per i ragazzi italiani in Serie C e B. I ragazzi forti alla fine giocano, che siano italiani o stranieri. Noi ad esempio abbiamo Vignato, lui gioca tranquillamente, non ha problemi. Penso semplicemente che, italiano o straniero, un giocatore deve giocare se è forte. Il fatto di dover far giocare per forza determinati giocatori ha indebolito il calcio italiano. Tutti i mercati sono più evoluti del nostro, all’estero curano di più il settore giovanile, capiscono che è una fonte di guadagno fondamentale. Quasi tutti i campionati sotto quel punto di vista sono avanti, noi siamo rimasti indietro perché curiamo maggiormente altre cose. Più o meno ora sono tutti alla pari. Il Sudamerica pare in calo ma non perché non ci siano campioni, semplicemente perché il mercato lì è più caro. Ciò ha però aumentato il mercato europeo, dove ci sono davvero tanti giocatori forti.

LEGGENDA

Oggi Sergio Pellissier continua a lavorare per il bene del Chievo, come ha fatto per tutta la sua carriera. È stato uno dei protagonisti di una delle più belle favole del calcio italiano degli anni 2000. Favole che fanno bene al calcio.

È possibilissimo che possano esserci ancora favole come la nostra. Basta avere una società che ha entusiasmo, che lavora bene, che ha solide basi economiche. Oggi avere una società in A non è difficile, il livello di B e C è sceso molto negli ultimi anni e quindi si può salire anche senza squadre forti. Serve gente che sappia fare il proprio lavoro, che abbia passione, come quella che lavorava nel Chievo. Serve una società sana.

Pellissier è stato uno degli ultimi protagonisti di un calcio diverso, interprete di un ruolo che orami è cambiato. Bomber di provincia, come se ne vedono sempre di meno, segno che l’importanza della gavetta si è un po’ persa, i giocatori ormai vengono sempre più spesso catapultati in grandi realtà troppo presto.

Quando il giocatore non cresce come deve, non dimostra il suo valore, accade che scompaia. Ora basta un anno in cui fai qualche gol e subito diventi un giocatore fondamentale, anche per le big, e velocemente scompari. Ai miei tempi, prima di andare in una grande dovevi segnare per cinque anni. C’è anche il discorso che ora non ci sono molti giocatori forti e quindi si utilizzano anche quelli che esplodono subito ma spesso è solo fumo agli occhi.

Tutti i giocatori di una volta, come me, Di Natale, Inzaghi, Toni, attaccanti che piano piano sono cresciuto a suon di gol, hanno fatto la gavetta nelle serie minori, sono partiti dal basso. Si sono fatti la ossa, si sono conquistati la A e piano piano sono arrivati in una big. Ora si tende a partire dalla A, senza possibilità tra l’altro di poter andare poi in B o C perché gli stipendi della A sono troppo alti. O sei un campione che parti dalla A e ci rimani, ma se nella A ci stai un po’ stretto ti areni là, nemmeno hai la possibilità di scendere e fare esperienza. Ora nessuno vuole partire dalla C, tutti vogliono tutto e subito. Giocatori che fanno anche cinque minuti in A, non vogliono scendere e scompaiono.

Tantissimi i difensori affrontati in carriera, impossibile scegliere il più forte.

Ne ho affrontati tanti, soprattutto i primi tempi, gente come Nesta, Cannavaro, Thiago Silva, Ferrara, Samuel, Materazzi. Sono campioni che hanno vinto tutto in carriera, sarebbe limitativo dire un solo nome.

Non ci sono dubbi invece sull’attaccante più forte oggi.

Ovviamente Ronaldo è superiore a tutti, penso sia palese. Parlando di italiani, Immobile e Belotti credo che siano i due attaccanti italiani più forti, sanno calciare con entrambi i piedi, una qualità scomparsa negli ultimi anni.

Una carriera al Chievo quindi, riassunta nei tre momenti a cui è rimasto più legato,

Il primo anno, con l’esordio e il primo gol in A. Quei momenti mi hanno segnato la carriera, mi hanno fatto capire che potevo rimanere in Serie A. Poi l’anno della B, con la fascia da capitano, che siamo risaliti subito in A. Infine l’addio al calcio, è stato emozionante, sono stato applaudito in più stadi, ho ricevuto la festa nel mio stadio, nonostante quell’anno fosse andato tutto storto e siamo retrocessi.

Infine il suo diez preferito.

Ce ne sono stati tanti, da buon italiano però nomino un connazionale e per me il n numero 10 è Roberto Baggio. Era il mio giocatore preferito da piccolo, mi è rimasto come simbolo. Anche se ho giocato contro Totti, Del Piero. Ne ho incontrati tanti di numeri dieci.

DaniloD
Scritto da

Danilo Budite