Federico Bernardeschi, tra apollineo e dionisiaco

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È la rovente estate del 2017: il sole cocente, le alte temperature, le vacanze al mare e l’immancabile febbre da calciomercato che mantiene vivo l’interesse dei calciofili di tutto il mondo, nonostante l’assenza di gare ufficiali e la sola sporadica presenza di qualche amichevole estiva disputata qua e là per il globo terracqueo. È l’anno in cui Madama sfiora la Champions League rendendo agrodolce un’annata sino a quel momento generosissima di successi; è l’anno del caso Totti e di Spalletti che, dopo un secondo posto conquistato a suon di punti (ottantasette!), si dirigerà verso altri lidi, approdando ad Appiano Gentile; è la penultima stagione del condottiero Sarri alla guida dei suoi azzurri ed è l’era di Paulo Sousa in salsa viola, del suo 3-4-2-1 e di Federico Bernardeschi.

Berna è di gran lunga il calciatore più pregiato della squadra gigliata e non solo in termini patrimoniali o tecnici: il suo valore è difatti impreziosito dal lungo percorso di crescita nelle giovanili del club, un dettaglio che, agli occhi dei tifosi, rende il diez viola un simbolo della meravigliosa città di Firenze, un’icona del quale essere orgogliosi ma, soprattutto, un punto di riferimento che funga da germoglio per avviare uno splendido progetto di rinascita. Gli anni d’oro della semifinale di Europa League, dopotutto, altro non sono che sfocate reminiscenze che si mescolano con un mediocre presente storico che langue di risultati e di traguardi.

“Bernardeschi sarà importante per la Fiorentina, per la Nazionale, e per le squadre in cui andrà. Per come conosco io il calcio ha un futuro che, grazie al suo talento ed alle sue qualità, lo porterà in squadre con ambizioni diverse rispetto a quelle della Fiorentina”. [- Paulo Sousa]

Tali parole si rivelarono una durissima sentenza, in primis, ed un‘impeccabile profezia in secundis quando, intorno a quel giovine di belle speranze, iniziò a dipanarsi un interesse generale non più ignorabile. Fu così che, come squali che avvertono l’odore della preda, le storiche big di Serie A saccheggiarono un’inerme Fiorentina la quale, frastornata dagli eventi circostanti, altro non poté fare che adeguarsi al desiderio di addio delle proprie stelle – Vecino, Kalinic e Bernardeschi tra i tanti. Le nobili aspirazioni dei tesserati della Viola apparivano legittime, tuttavia, l’addio del proprio numero dieci e punta di diamante della squadra in direzione Juventus assumeva via via i contorni di qualcosa di sempre più simile ad un incubo ricorrente.

“Il mio futuro? Adesso tocca al mio procuratore e alle società. Non mi intrometto. Ripeto, sono tranquillo e non ho fretta ma…a chi non piacerebbe giocare nella Juventus?”

Di lì a due settimane il trasferimento si sarebbe consumato per vie ufficiali.

Bernardeschi abbandonerà Firenze dopo 93 presenze, 23 gol e 12 assist con la divisa viola per brillare su palcoscenici più prestigiosi, con addosso i colori sociali dei rivali della Juventus F.C, al prezzo di 40 milioni di euro.

IN PUNTA DI PIEDI, MA BRILLANDO

“La 10? È giusto che io me la meriti, quello è il mio numero. Se fosse stato per me, l’avrei presa. È stata una scelta condivisa della società insieme a me. Il rispetto per la numero 10 deve essere assoluto e, per indossarla, un giocatore deve meritarsela. Ho scelto la 33, perché sono credente e religioso”.

Inizialmente, la scelta di non assegnare la camiseta numero diez a Bernardeschi fu molto dibattuta: sino a quel momento, dopotutto, il numero più prestigioso della Vecchia Signora risultava vacante e non pareva sussistessero le condizioni – o altri affari in essere – che proiettassero quel numero su di un altro calciatore. A vestirla, però, poche settimane dopo, sarebbe stato Paulo Dybala, con grande sorpresa di tutti. A Torino, in relazione all’ex-Fiorentina, prevalse la volontà di intraprendere un percorso di apprendistato che non sfociasse immediatamente nell’elargizione della maglia più pesante: l’assegnazione di quel numero equivaleva ad un’incoronazione il cui fardello appariva decisamente oppressivo per un giovane che, del calcio stellato, aveva solamente assaggiato qualche antipasto.

E da entrée fu anche la sua prima stagione all’ombra della Mole Antonelliana sotto la guida di Massimiliano Allegri: Brunelleschi – come fu presto soprannominato anche dai supporters bianconeri – partiva dalle retrovie nelle gerarchie del tecnico ma, nonostante ciò, non smise mai di brillare ed incantare i propri tifosi ri-esibendo le medesime sontuose giocate di Firenze che già gli erano valse il passaggio al livello successivo della piramide. In tal senso fu eccellente, quell’anno, la gestione della sua sorprendente crescita: gli fu concesso di ambientarsi, di acquisire fiducia e confidenza col mondo Juventus rimanendo ben lontano da certe pressioni e da pericolosi riflettori: i media, in tal senso, elevano a campioni e fagocitano calciatori a grande velocità ed appariva importante evitare di speculare su un giovane tanto promettente; un rischio all’ordine del giorno, soprattutto in seguito a reti di tale pregevolezza…

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È SOLO UNA NOTTE DA DIEZ E LODE

È la stagione 2018-2019: La Juventus acquista il diritto alle prestazioni sportive di Cristiano Ronaldo inaugurando l’anno in cui, più che mai nella storia recente del club, la squadra bianconera avrebbe inserito nel mirino la Uefa Champions League: parola di presidente, parola di Andrea Agnelli.

“Sarà un anno difficile, un anno dove dobbiamo passare dal sogno all’obiettivo. La Champions League deve essere l’obiettivo quest’anno. Deve essere la Champions, deve essere lo Scudetto, deve essere la Coppa Italia. Noi quest’anno dobbiamo veramente porci l’obiettivo di vincere tutto. Per raggiungere quest’obiettivo, e Max (Allegri, ndr) e lo staff lo sanno perfettamente, bisogna lavorare quotidianamente per arrivare alla fine dell’anno e raccogliere i frutti. Sarà un anno di nuovo estremamente difficile, pieno di passione e non vedo l’ora che inizi”.

La previsione inerente alle difficoltà che avrebbero assalito la Juventus quell’anno si rivelò veritiera e non fu il semplice tassello di un discorso di mediocre retorica volto a galvanizzare ambiente, squadra e tifosi. Bernardeschi, tra i vari membri della rosa, ad esempio, non seppe emergere come aveva lasciato presagire l’anno precedente, nonostante le evidenti difficoltà dei compagni di reparto – come l’equivoco tattico Dybala e la perenne presenza di Douglas Costa in infermeria – fossero un assist tanto inaspettato quanto appetitoso per un potenziale campione in erba che necessita continuità.

In data 12 marzo 2019, però, avvenne qualcosa di meravigliosamente inaspettato.

La Juventus accoglieva in casa l’Atletico Madrid in seguito alla sfida di andata conclusasi con la vittoria dei colchoneros per due reti a zero. Per accedere alla fase successiva occorreva un ribaltamento di fronte clamoroso: infliggere un passivo di tre marcature ai madrileni che, al Wanda Metropolitano, si erano dimostrati nettamente superiori. In quel mercoledì di Coppa dei Campioni, il numero 33 soffiò il ruolo da titolare ad un Paulo Dybala sfiduciato e sempre più ai margini e realizzò quella che, ad oggi, può essere considerata la sua miglior gara dal momento del passaggio in bianconero.

Fu tutto incredibile dal primo all’ultimo minuto di gioco: fu come se i protagonisti di Cecità di José Saramago avessero riacquisito la vista perduta o, in tal caso, il talento smarrito; fu come quando Lester Burnham mutò attitudine in American Beauty, reinventandosi una personalità sino a quel momento celata sotto una pila di incertezze, dubbi ed amarezze; fu come quando Federico Bernardeschi, il 12 marzo 2019, in bilico tra realtà e lucida follia, sciorinò una gara superba in cui tra assist, rigori procurati, leadership e tecnica contribuì da protagonista assoluto alla realizzazione di qualcosa di magico. Fu una prestazione d’un impatto così assordante che solo Cristiano Ronaldo seppe arrivare più in cima, quella notte, superando se stesso. Gli alieni di Space Jam, per qualche strano caso del destino avevano forse restituito a Federico Bernardeschi il suo meraviglioso talento – con gli interessi maturati.

Fu una gloria effimera.

UN ABITO TUTTO NUOVO

Le differenze tra Sarri ed Allegri? Lavoriamo con la palla, tanta palla a ritmi altissimi. Ora c’è un’identità di gioco molto importante, un atteggiamento differente da quello dell’anno scorso. Sarri ha metodologie diverse da Allegri e devo dire che ci stiamo trovando molto bene. Sto provando da esterno destro e per ora gioco lì: se in un futuro l’allenatore deciderà di cambiarmi ruolo, me lo dirà. Piuttosto, abbiamo sempre provato il 4-3-3 ma io mi trovo a mio agio anche nell’altra posizione, da trequartista del 4-3-1-2. [- Bernardeschi, 23 luglio 2019]

Con l’avvio della nuova stagione sotto l’egida di Sarri, per scelta tecnica, Bernardeschi non sarà presente nello scacchiere dei titolari ma osserverà dalla panchina una Juventus a trazione anteriore: 4-3-3, con Ronaldo alto a sinistra, Higuaìn riferimento centrale e Douglas Costa in alto a destra.

I piani dell’allenatore toscano, tuttavia, non dureranno a lungo e, tra l’infortunio dell’ala brasiliana ed il tentativo di facilitare l’ingresso nelle rotazioni di Paulo Dybala, il tecnico propenderà, presto, per un 4-3-1-2: un modulo senz’altro appropriato alle caratteristiche della squadra che, tuttavia, impone la panchina ad una delle due punte argentine e la necessità di individuare un giocatore che possa disimpegnarsi nel ruolo di trequartista alle spalle degli attaccanti. Le dichiarazioni soprastanti di Bernardeschi si rivelano profetiche dell’inaspettato cambio di strategia del tecnico che individuerà in lui ed Aaron Ramsey le migliori frecce della propria faretra per un ruolo così delicato. A desiderare ad alta voce una specializzazione in un ruolo, in fondo, era stato proprio lui poche settimane prima…

“L’anno scorso ho giocato in non so quanti ruoli ed è stimolante, però, quando vuoi acquisire continuità, la specializzazione diventa fondamentale. Specializzarmi può aiutarmi a trovare automatismi”.

Si arriva, così, ai giorni odierni che narrano di un Bernardeschi mai domo atleticamente – è inattaccabile dal punto di vista dell’impegno profuso per la causa – ma spesso e volentieri insufficiente per rendimento in campo. E si fatica a comprendere, effettivamente, cosa non vada. Lo si vede vagare per il campo con occhi grandi come fari circondati da occhiaie scure che sembrano quasi narrare, metaforicamente, il suo rendimento: il suo affanno è tangibile, la sua qualità, di contro, è celata sotto strati di punti di domanda che sembrano sul punto di chiedergli quale sia il vero Federico Bernardeschi.

“La scelta di schierare Bernardeschi? Al momento serve un trequartista che dia equilibrio” [- M. Sarri]

In che momento, esattamente, si è passati dal definire il Brunelleschi di Firenze e Torino – nonché possibile erede di un eccellenza come Roberto Baggio – come ‘un giocatore che dà equilibrio‘? Non si tratta di un attacco all’attuale tecnico della squadra bianconera o al suo predecessore, tuttavia, il termine ‘equilibrio’ in relazione ad un trequartista potrebbe far pervenire alla mente dei tifosi il 4-3-1-2 utilizzato da Massimiliano Allegri nel 2015: in quello scacchiere si può affermare con assoluta certezza come Arturo Vidal, schierato da ‘fantasista’ dietro gli attaccanti fosse, di fatto, una mezzapunta atipica, ossia un giocatore con caratteristiche differenti da ciò che convenzionalmente richiede il ruolo e, in sintesi, un ‘elemento di equilibrio’. Ci si chiede, pertanto, quando il mondo del pallone ha iniziato a disamorarsi della straordinaria qualità dell’ex-Fiorentina. Ed appare spontaneo, inoltre, domandarsi in che momento del racconto Federico Bernardeschi smarrisca il proprio talento e debba sopperire all’imprevisto con un’intensità che, per quanto tangibile, non gli è assolutamente propria.

Il posto in panchina, così, vien da sé e riporta alla luce una sindrome che l’anno scorso aveva mietuto il talento di chi ora gli sta sottraendo il posto; questa stagione, tuttavia, non sembrano esistere capri espiatori ed il fardello degli insuccessi del talento carrarese è completamente sulle sue spalle.

Come se fosse intrappolato in un sogno di Inception o come se la sua memoria non gli ricordasse ciò che può fare davvero, in pieno stile Leonard Shelby di Memento, Federico Bernardeschi è un giocatore che snaturandosi ha smarrito la propria identità.

L’equilibrio, in fondo, è un concetto troppo apollineo per un talento dionisiaco che ha fatto troppo ben sperare per poter deludere sul più bello.

NicolasN
Scritto da

Nicolas Pirone