ESCLUSIVA ALBERTINI – Calciatore di Milan, Atletico Madrid, Lazio, Atalanta e Barcellona, ora Presidente del Settore Tecnico in FIGC e imprenditore: semplicemente, Demetrio Albertini. L’ex rossonero ha scelto di raccontarsi a Numero Diez all’interno del format Behind The Mask, per svelare inediti retroscena riguardanti la sua carriera e la sua vita post-calcio.
L’oratorio è probabilmente il posto più importante per te e i tuoi fratelli: lì avete iniziato a coltivare la passione per lo sport. Tu ti sei realizzato in quell’ambito, mentre tuo fratello Alessio ha scelto la via ecclesiastica. Si può dire che le rinunce fatte da te come calciatore siano paragonabili a quelle fatte da tuo fratello per seguire la sua vocazione?
“L’oratorio è stato un punto d’incontro con i miei fratelli. In un paese di 1200 abitanti, l’oratorio diventa un fulcro e punto di ritrovo per tutta la comunità dei più giovani. Il passaggio era quasi obbligato e poi da lì abbiamo coltivato le nostre passioni, che sono per tutti e tre quelle calcistiche prima di tutto. Le nostre strade si sono un po’ divise dopo perché io e Alessio siamo usciti di casa molto presto, mentre Gabriele, il più piccolo, è rimasto lì. Io avevo 17 anni quando sono andato a vivere a Milanello, dove ho concluso gli studi mentre giocavo, Mio fratello Alessio, invece, è andato in seminario a 14 anni e ci siamo trovati dopo, dato che il seminario era molto vicino a Milanello. Gabriele è il presidente della Pro Sesto: anche lui ha fatto una carriera calcistica e ora ne sta facendo una dirigenziale importante”.
Cosa significa per te tornare lì? E quanto è stato importante sentire l’affetto della tua gente dopo la finale di Pasadena?
“Ho la mamma lì e vado spesso a trovarla. Tante volte diventa un punto d’incontro con la mamma e qualche amico che è ancora lì. Dopo 2 o 3 giorni rispetto alla finale di Pasadena abbiamo organizzato una partita in oratorio tra quelli della mia leva, ovvero quelli del ’71, contro il resto del paese. In quell’occasione fu una festa per celebrare un concittadino che ha giocato a calcio in televisione. C’erano 2000/2500 persone all’oratorio, numeri che si vedono in mesi”.
A Pasadena eri il più giovane della spedizione italiana. Nonostante questo hai calciato il rigore, segnandolo: cosa significa calciare un rigore in finale di Coppa del Mondo?
“Ero il più giovane, perché ero nato nel secondo semestre del mese, mentre Dino Baggio era nato nel primo. Avevo 22 anni ed è stata un’esperienza meravigliosa. Tirare il calcio di rigore, nel vissuto comune, è un gesto molto facile: lì, però, devi gestire l’emotività, più che calcolare il gesto tecnico. E le emozioni in una finale mondiale non le puoi preparare, dato che capita molto raramente di tirare un rigore così importante. Ci sono volute incoscienza, dovuta anche all’età, e consapevolezza, perché quando sai di aver fatto tutto nel modo giusto, vai con serenità a calciare nel modo corretto”.
Si può dire che sia stata l’esperienza più memorabile della tua carriera?
“Nello sport si dice spesso che alcuni siano più fortunati di altri: la fortuna serve, ma credo sia più corretto parlare di meritocrazia. Il treno passa e bisogna essere pronti a salire su quel treno, anche se non sai quando passerà. Può passare come per me a 17 anni, mentre per altri a 22/23. L’importante è essere preparati. Queste sono esperienze che ti porti per tutta la vita. Quando, da dirigente, vedevo ragazzi delle giovanili arrivare nelle finali, dicevo sempre: “Il calcio ti regala esperienze meravigliose. Spetta a voi tornare a casa dagli amici e raccontare di un’esperienza meravigliosa o di vittorie”. Male che vada rimane un’esperienza stupenda”.
Una vita da “metronomo” del Milan: qual è il miglior ricordo quegli anni?
“Mi viene la pelle d’oca perché il Milan è stata la mia seconda famiglia. Non penso solo ai risultati, ai tifosi, ma parlo di famiglia perché mi ha fatto crescere. Io firmo il primo cartellino al Milan a 10 anni, appena finita la quinta elementare, e ne esco a 32/33 anni. Ho vissuto quindi a braccetto con le persone e i valori che compongono la società per tantissime fasi della mia vita. Mi porto le vittorie, alcune rinunce – non sacrifici perché li ho sempre fatti con il cuore. La partita d’addio racchiude bene ciò che sono stato nello spogliatoio. C’erano otto Palloni d’Oro in campo e 45000 persone allo stadio. In quel momento, Van Basten viene da me in mezzo al campo e mi dice: “Demetrio, solo tu potevi raggrupparci tutti qui”. In campo vinci ma insieme agli altri, nello spogliatoio sei te stesso”.
Avresti voluto un addio diverso?
“Il mio sogno sarebbe stato quello di finire la mia carriera al Milan, ma se tornassi indietro rifarei tutto ciò che ho fatto. Dopo il Milan sono andato all’Atletico con un’esperienza incredibile. Vado tuttora a Madrid e sono accolto come uno di loro da società e tifosi. Sono andato alla Lazio e ho vinto l’ultima coppa che mi mancava: la Coppa Italia. All’Atalanta ho conosciuto tante persone legate al territorio e alla maglia con obiettivi diversi da quelli del Milan. Poi finisco la carriera al Barcellona: non vincevano da cinque anni, vinciamo LaLiga e da lì inizia il ciclo della squadra che ha segnato la storia del calcio mondiale. Avrei vissuto la mia carriera al Milan, coronando un sogno, ma avrei perso tante esperienze, sia come uomo che come giocatore”.
Rijkaard ti chiama al Barcellona, dopo un periodo all’Atalanta, per un progetto totalmente diverso: in poco tempo, hai lasciato tantissimo a società e tifosi, creando un legame indelebile prima del ritiro. Come ci sei riuscito?
“In sei mesi a Barcellona sono successe due cose: ero il veterano della squadra e quello che aveva vinto un po’ di più. Lì c’erano Xavi, Iniesta, Puyol, Messi, ma ancora non avevano vinto nulla e non erano i campioni che abbiamo conosciuto. Poi hanno visto la mia serietà dentro e fuori dal campo, la mia esperienza messa al servizio del pianeta Barcellona. Quando arrivi ti dicono che è più di un club. E non intendono una polisportiva, ma è come se fosse la nazionale della Catalogna, entra anche il fattore politico. In sei mesi è successo qualcosa di straordinario: si è creata un’alchimia con i tifosi, i giocatori e la società, che è la stessa di adesso con presidente Joan Laporta. Lo dico per la prima volta: io nelle elezioni precedenti, ho partecipato insieme a Joan Laporta, ma perdiamo contro Bartomeu. Quando sono tornato, lo stesso Bartomeu mi ha detto: “Non so come tu hai fatto: qui sono passati tanti grandi campioni, ma il legame che hai costruito tu con la gente è straordinario”.
Per la tua carriera che giungeva al capolinea, c’era quella di un fuoriclasse che stava spiccando il volo: hai qualche aneddoto sul primo Lionel Messi?
“Il presidente chiede a Leo: “Tu conosci questa persona?”. Lui risponde “Certo, è Albertini”. Poi chiede a me… Mi vergogno a dirlo, ma ho risposto di no. Il presidente poi mi ha rassicurato dicendomi che è bravo, della cantera. Anche se dalla cantera a quello che è diventato ce ne vuole. Poi il giorno dopo te lo ritrovi in allenamento e capisci che è uno che può scrivere la storia. Io di talenti ne ho conosciuti tanti, magari che non hanno fatto ciò che potevano fare. Lui non è un talento, è straordinario. In Spagna si dice “Crack”, in Italia “fuoriclasse”: lui se li merita”.
Dopo il calcio, entri a far parte della FIGC. L’evento più importante in programma è sicuramente l’Europeo del 2032, che si svolgerà in Italia e in Turchia: come ci si sta preparando a ospitare questa manifestazione? Può far tornare la passione per la Nazionale?
“Cambio ruolo, ma rimango sempre nel calcio. L’intento era quello di diventare un dirigente e mi è stata data l’opportunità di entrare in federazione due mesi dopo la mia partita d’addio. Comincia un’esperienza straordinaria, importante e impegnativa come dirigente. Come ci stiamo preparando al 2032: è un lavoro di mesi per dare una candidatura credibile. L’Italia deve prendere questa opportunità per poter intervenire sulle infrastrutture perché siamo molto indietro. Questo ci darà un plus per il rifacimento di tanti stadi. Per l’amore della Nazionale: non c’è meno amore, ma solo meno risultati. La maglia azzurra è speciale e ci unisce, anche nelle critiche”.
Una questione spinosa, quella riguardante il calcioscommesse. Tu avevi già smesso di giocare quando lo scandalo di Calciopoli ha infangato il nome del calcio italiano e, dopo 15 anni circa, ci siamo ricaduti. Più che analizzare di chi sia la colpa, come si può rimediare nel presente e in futuro?
“Si deve cambiare, non riesco a capire perché capita sempre a noi. Calciopoli era un po’ diversa e io ho dovuto gestirla da dirigente: non è stata semplice. Dico una cosa: mi dispiace, perché tante volte si perde di vista quello che uno è. Loro sono delle aziende dentro l’azienda: non si è ancora pronti a essere un’azienda, vuoi essere spensierato. Bisognerebbe fare informazione su un tema delicato come quello delle scommesse. Ne abbiamo parlato per un po’ di anni, abbiamo abbassato la guardia e i giovani ci sono ricascati. Credo sia giusto che uno che sbaglia debba pagare, ma non bisogna generalizzare dicendo che il calcio è malato”.
Quanto ti ha aiutato il calcio nella tua vita da imprenditore?
“Io ho trasferito le regole dello spogliatoio nel mondo dell’imprenditoria. Gestire un gruppo di lavoro, i dipendenti devono sentirsi dei partner, attrarli con qualcosa di poter costruire qualcosa insieme: tutto questo l’ho imparato nello spogliatoio. Ciò che va insegnato è che, oltre alla visione, bisogna avere disciplina per poter raggiungere gli obiettivi. Ora ho istituito una società di sport-marketing che porta il mio nome, con creazione di eventi, comunicazione. Nel frattempo ho investito in dei centri padel. Poter dare lavoro a delle persone mi appaga tantissimo, oltre a impegnarmi tantissimo”.
GIOCO FINALE – RISPOSTA SECCA
Compagno più forte con cui hai giocato? “Van Basten”
Avversario che avresti voluto nella tua squadra? “Zidane”
Allenatore con cui hai creato un legame più importante? “Sacchi”
Maglia scambiata a cui sei più affezionato? “Puyol”
Scambieresti le tre Champions per il Mondiale del ’94? “Solo una (ride, ndr)”
Negli anni, hai individuato un tuo erede? “No, perché non mi piacciono i paragoni”
Figura a cui ti sei ispirato/di riferimento? “Marco Tardelli”
C’è una partita che rigiocheresti? “Quella dell’Europeo del 2000”
Tre aggettivi per descrivere la tua carriera “Straordinaria, appagante, fortunosa”
Dopo il ritiro, fare l’allenatore è mai stata un’ipotesi? “No, perché non voglio avere a che fare con i calciatori (ride, ndr)”.
Soddisfazione più grande post-calcio? “Essere riuscito a cambiare e vivere sempre con degli stimoli, oltre ad aver avuto vicino delle persone che hanno capito le mie esigenze”.