Quattordici Paesi toccati, quattro lingue parlate, nato in Canada ma cresciuto in Francia e, come se non bastasse, tipica mentalità italiana. Stefano Cusin è, senza alcuna ombra di dubbio, la massima espressione del cosmopolitismo in ambito calcistico. La sua è una storia unica, fatta di capovolgimenti, Paesi esotici ed esperienze che ben poche persone possono vantare di aver vissuto grazie al proprio lavoro. Una storia scritta con la valigia in mano, sempre alla ricerca di nuove avventure in giro per il mondo.
Camerun, Congo, Bulgaria, Libia, Emirati Arabi, Arabia Saudita, Palestina, Sudafrica, Cipro, Iran, Sudan del Sud e ora Comore. È proprio con il piccolo arcipelago dell'Oceano Indiano che mister Cusin ha recentemente scritto una delle pagine più belle e sorprendenti dell'intera storia del calcio africano. Le tre isolette vulcaniche - 2 170 km² di estensione e poco più di 700mila abitanti - hanno staccato il pass per la prossima Coppa d'Africa nonostante un girone proibitivo, almeno sulla carta. Ma Cusin, con la sua conoscenza del calcio a 360° e una federazione che ha positivamente assecondato le sue richieste, è riuscito a sovvertire ogni pronostico, conducendo questa piccola nazione al sorprendente primo posto nel proprio girone di qualificazione.
A farci rivivere il percorso che lo ha condotto ai vertici del calcio africano è stato lo stesso Stefano Cusin, che ha condiviso la sua straordinaria storia in esclusiva a Numero Diez.
L'IMPRESA DELLE ISOLE COMORE
Abbiamo già accennato del sorprendente percorso che ha portato le piccole Isole Comore alla prossima Coppa d'Africa, ma procediamo con ordine. Mister Cusin inizia raccontandoci le motivazioni che lo hanno spinto a prendere l'atipica decisione di guidare una piccola nazionale come le Comore: "Avevo appena concluso i miei due anni di contratto con il Sudan del Sud e avevo ricevuto richieste da diverse federazioni. Ho scelto le Comore perché mi sembravano il giusto compromesso tra Europa e Africa. Un paese bellissimo e, soprattutto, con una mentalità molto francese ed europea. Quando ho parlato con il Presidente, ho capito subito che eravamo in sintonia. Mi è stata data la possibilità di agire sia come allenatore che come manager. Infatti non sono soltanto il commissario tecnico della nazionale, ma anche il general manager, quindi ho la responsabilità di prendere tutte le decisioni. Questo, per un allenatore, è fondamentale”.
Il primo incarico da commissario tecnico è stato quello di individuare calciatori con le qualità per rappresentare al meglio il Paese. Un compito certamente non semplice, considerando le ridotte dimensioni della popolazione e le risorse limitate: "La fortuna è che molte famiglie delle Comore hanno emigrato in Francia, quindi ci sono tantissimi giocatori comoriani che militano in squadre di buon livello. La prima fase del mio lavoro è stata quella di valutare i binazionali, cioè quei giocatori che non avevano mai giocato per le Comore ma che avrebbero potuto farlo, e di convincerli a unirsi alla squadra. Sono andato a Berlino per parlare con Maolida, che giocava all'Hertha, e ha accettato di venire; ho poi convinto Rafiki Saïd del Troyes, che è davvero un grandissimo giocatore. Sono partito dalla base già esistente, aggiungendo 7/8 giovani dell’Under-20 e 4 nuovi giocatori emergenti. Questa è stata la base su cui stiamo ancora lavorando per costruire una squadra competitiva".
Proseguendo nel racconto del percorso, emergono le difficoltà e le soddisfazioni legate alle qualificazioni per la Coppa d'Africa: "Come definirei questo percorso di qualificazione con le Comore? Fantastico, perché sono state qualificazioni concentrate in pochi mesi. Normalmente, la Coppa d'Africa si sviluppa su un anno; ma questa volta le qualificazioni sono terminate il 18 novembre, e già a gennaio ci sarà la Coppa d'Africa. Di solito si gioca a giugno, perché è il periodo migliore per i club, ma quest'anno verrà disputata da metà dicembre 2025 a metà gennaio 2026, per via del Mondiale per Club. Siamo partiti in un gruppo molto difficile, perché nella quarta fascia c'era il Gambia, una squadra di grande valore. Per fare qualche esempio: Colley della Sampdoria, l'ex Bologna Barrow e Minteh del Brighton. È una squadra che ha partecipato alle ultime due edizioni della Coppa d'Africa, raggiungendo anche i quarti di finale nel 2022 in Camerun. Poi c'era la Tunisia, 36ª nel ranking mondiale, che ha battuto la Francia al Mondiale poco tempo fa. Infine, il Madagascar, con il quale abbiamo vinto un derby che la mia Nazionale non si aggiudicava da 46 anni. Siamo partiti a settembre con due pareggi, contro Madagascar e Gambia, giocando due buone partite. A ottobre è arrivata la vittoria a Rades, in Tunisia, contro una squadra che non perdeva in casa da 14 anni. Poi abbiamo pareggiato nuovamente con loro. Ottenere quattro punti contro la Tunisia era quasi impensabile. A novembre, invece, abbiamo battuto il Gambia, nostro diretto rivale, e per la prima volta abbiamo vinto il derby contro il Madagascar. Definirei fantastico il cammino”.
Alla fine della fiera, dunque, le Isole Comore, contro ogni aspettativa, hanno staccato il pass per la prossima Coppa d'Africa. Mister Cusin, ovviamente non può che dirsi soddisfatto del risultato ottenuto: "Sono molto orgoglioso. Un processo del genere non è mai solo merito dell’allenatore. Secondo me, il successo è il risultato del lavoro di professionisti, di uno staff competente e di una federazione piccola ma molto forte e attiva. Anche il governo è estremamente collaborativo: ci mette a disposizione un aereo privato per i viaggi e ci ospita in hotel a 5 stelle, facendo il massimo per garantire a tutti le migliori condizioni per affrontare le gare. Sono molto fiero di essere l’allenatore di questa squadra, ma condivido il merito con tutti i membri del mio staff, molti dei quali sono italiani. Possiamo dire che questa è una vittoria ‘made in Italy’. Il popolo comoriano è letteralmente impazzito. Sono stato recentemente per 10 giorni alle Comore e ho potuto vivere questo entusiasmo da vicino. Sono stato accolto con calore e ho persino dovuto tenere un discorso in una piazza pubblica. Le Comore sono composte da tre isole e su ognuna di esse sono stato accolto benissimo. L’entusiasmo è alle stelle. Per loro è come se avessero vinto il Mondiale. La parola che torna sempre è ‘fierezza’: sono fieri della squadra e di essere comoriani. Questo, per me, è davvero gratificante".
Cusin, però, di obiettivi prefissati non ne vuole proprio sentir parlare: "Ho imparato che nello sport non si dovrebbero mai fissare obiettivi rigidi, perché può diventare un limite. Molto spesso le squadre africane non arrivano fino in fondo alle competizioni mondiali, ma non per mancanza di qualità nei giocatori – basti pensare alla Nigeria del ’94, al Camerun del ’90, al Senegal del 2002 o al Ghana del 2010. Erano squadre straordinarie, piene di giocatori che militavano nei migliori club europei. Cosa succede, allora? Che, una volta raggiunti i quarti di finale, si rilassano, convinti di aver già ottenuto il massimo, e non riescono ad andare oltre. Per questo non voglio fissare obiettivi specifici. Certo, inizialmente l'obiettivo era qualificarsi per la Coppa d’Africa e lo abbiamo raggiunto. Ma, una volta che inizi a lavorare sulla qualità e il potenziale della squadra, l’importante diventa credere nelle proprie idee e andare avanti senza porsi limiti. Dire, ad esempio, ‘vogliamo passare il primo turno' o ‘puntiamo ai quarti di finale' non significa nulla. Se hai l’opportunità di arrivare in semifinale o in finale, perché fermarti? Fissare un obiettivo intermedio può portare a rilassarsi una volta raggiunto, perdendo di vista il vero potenziale della squadra. Quindi, preferisco non definire limiti ma puntare sempre al massimo".
Nonostante l'enorme crescita fatta registrare, quello dei Mondiali resta il grande sogno dei comoriani, seppur difficile da realizzare: "Siamo partiti dalla fascia 5, quindi è quasi impensabile e impossibile immaginare di poterci qualificare. Nonostante ciò, al momento siamo primi nel nostro girone. Se dovessimo riuscirci, sarebbe un sogno che si realizza”.
L'ESPERIENZA IN PALESTINA E LA TRASFERTA NELLA MARTORIATA GAZA
Se la sua carriera ha raggiunto questi livelli, è anche merito delle esperienze che ha vissuto in giro per il mondo, spesso in contesti complessi e in luoghi segnati da conflitti. Tra queste, spicca la doppia esperienza sulla panchina dell'Ahli Al-Khalil, club palestinese, che ha rappresentato una tappa cruciale sia dal punto di vista professionale che umano: “Sono arrivato in Palestina nel gennaio del 2015, subito dopo alcuni bombardamenti devastanti che avevano colpito il quartiere. Nonostante questo, nei dieci mesi trascorsi lì, ho vissuto un periodo relativamente tranquillo, anche se episodi di tensione non sono mai mancati. È stata un’esperienza umana straordinaria, oltre che sportiva. Quando ho preso in mano la squadra, lottavano per non retrocedere. Siamo riusciti a salvarci e a qualificarci per la Champions League asiatica. È stato un incontro fortunato, anche perché ho trovato una squadra disposta a lavorare con impegno. Hebron è una città difficile, ma bellissima e ricca di storia, come del resto tutto il paese. Quella in Palestina è stata un’esperienza umana favolosa, forse la più forte, intensa, bella e magica della mia vita”.
Oggi il fulcro del conflitto tra Palestina e Israele è Gaza, un luogo simbolo di sofferenza e resistenza. Mister Cusin, nella sua esperienza in Palestina, ha avuto modo di affrontare la squadra locale, l'Al-Ittihad Shejaia, in occasione della Supercoppa della West Bank, poi vinta dal suo Ahli Al-Khalil. Quel territorio, già martoriato dalla guerra all'epoca come lo è tutt'ora, lasciò un segno indelebile nella sua memoria, sia per la devastazione visibile che per l'umanità incontrata lungo il cammino: “È stato uno dei momenti più forti della mia carriera, perché il quartiere di Shejaia era stato bombardato l'estate precedente. Appena attraversato il confine con Gaza, che è praticamente una prigione a cielo aperto, ci siamo ritrovati dentro un pullman e i nostri avversari ci tenevano a farci visitare il loro quartiere. Sembrava un film: c'erano grattacieli di tanti piani crollati a terra, macchine distrutte, giocattoli di bambini sotto le macerie. Un'esperienza molto forte. Tra l'altro, lo stadio dove abbiamo giocato la prima partita, l'andata della finale, era stato bombardato, quindi c'era tutta un'ala dell'impianto crollata. Fu un viaggio veramente molto intenso, ho ricordi molto vivi di quei momenti. La strada principale, il lungomare dove noi alloggiavamo, vista poi dalle immagini in TV, è stata rasa al suolo. Sono stati 4-5 giorni molto forti”.
Proprio in quell'occasione, ebbe anche modo di incontrare e scambiare qualche parola con Ismail Haniyeh, leader politico di Hamas: “Eravamo in ritiro con la squadra, era qualche giorno prima della gara, e arrivarono alcune persone dei servizi segreti di Hamas. L'ho capito dopo. Ci chiesero di lasciare i cellulari in albergo e ci accompagnarono con loro. Facemmo un giro a Gaza per circa un'ora e mezzo e, a un certo punto, arrivammo davanti a un edificio. Scendemmo le scale e c'era un bunker sotterraneo, dove sulle pareti c'erano tutte le foto dei martiri, persone morte nella guerra con Israele. Lì incontrammo Ismail Haniyeh, il capo di Hamas, il cui figlio era nella società dell'Al Shejaia. Ci offrì una cena e, mentre parlavamo, si avvicinò a me con un traduttore, perché non conosceva l'inglese. Mi fece i complimenti per quello che stavamo facendo nella West Bank. Mi disse che lo sport era molto importante per i giovani di Gaza, che dava speranza, e si augurava che avremmo preso dei ragazzi del posto. Infatti ne prendemmo due, che ora sono in nazionale palestinese. Mi disse che gli sarebbe piaciuto sviluppare il calcio come lo stavamo facendo noi, ma farlo anche a Gaza. Poi mi abbracciò”.
In terra palestinese, in appena otto mesi di gestione, Cusin conquista ben quattro titoli: Coppa di Palestina, Coppa di Lega, Supercoppa e Supercoppa West Bank.
L'ALLENATORE COSMOPOLITA
Il calcio ha la sua capacità unica di abbattere barriere e creare connessioni, un mezzo per unire popoli e culture diverse. E questo, lo sa bene anche il mister: “Io, di carattere, non apprezzo tutto ciò che divide le persone. Mi piace invece tutto quello che le unisce. Questo è un principio che seguo sempre. Sicuramente lo sport, e in particolare il calcio, ha questa capacità di unire, soprattutto in paesi come l’Iran, la Palestina o le Comore. Lo sport diventa un modo di esistere, un’espressione della propria identità. In Palestina, per esempio, il calcio rappresenta l’unico spazio di libertà. Dentro uno stadio, le persone possono esprimersi, dire e fare ciò che sentono. È un momento vissuto con grande intensità. Ed è questo che rende il calcio così speciale in quei contesti”.
L'integrazione è un valore fondamentale, sia nella vita che nello sport. Come sottolinea Cusin, il successo non dipende da un unico approccio, ma dalla capacità di adattarsi e comprendere profondamente la cultura e la mentalità delle persone con cui lavori: “Ho scoperto che non esiste un unico modo per vincere: ci sono tanti modi diversi, e allenatori molto diversi fra loro sono riusciti a ottenere successi. La cosa più importante, per me, è capire il popolo e la mentalità delle persone che alleni. Solo dopo puoi intervenire per migliorarli o indirizzarli verso la tua visione. Ma se prima non hai conquistato lo spogliatoio, difficilmente potrai ottenere risultati. Questo vale in qualsiasi spogliatoio del mondo, anche in Italia. Spesso gli allenatori tendono a voler imporre le proprie idee e forzare le cose, ma non è così che funziona. È fondamentale comprendere profondamente la realtà del Paese in cui stai allenando. Significa mangiare il loro cibo, uscire, osservare le persone, capire la loro mentalità e conoscere ciò che è stato fatto prima di te. Non c’è un episodio unico che mi ha portato a questa consapevolezza. È stato un cammino lungo vent’anni, fatto di errori, lezioni apprese, miglioramenti continui. È un percorso che mi ha reso più competitivo, non solo come allenatore, ma anche come persona”.
Questa filosofia di vita si estende anche al suo approccio globale al calcio, dove la comprensione delle realtà culturali e sociali è altrettanto fondamentale: "Credo che il mondo sia bello proprio per la sua diversità. Avere a che fare con più mentalità, più persone, più modi di vedere la vita, ti fa capire che la vita può essere vissuta in tanti modi diversi. Questa è una regola di vita che seguo ormai da tanti anni. Per quanto riguarda i miei giocatori, si adattano senza problemi. È chiaro che puoi trovare giocatori con preparazioni diverse, con esperienze differenti, ma in generale l'allenatore intelligente non propone mai cose che il gruppo non è in grado di fare. Le cose vanno proposte progressivamente, in modo graduale, per arrivare alla complessità. Si parte sempre da esercitazioni semplici. Io, prima di tutto, chiedo ai miei giocatori cosa sono abituati a fare durante l'allenamento. Sulla base di questo, parto da un punto di partenza comune e poi inserisco nuove cose. Nel giro di qualche mese, la squadra cambia atteggiamento e mentalità. Molto spesso uso anche video per spiegare il motivo dietro le esercitazioni. Mostro loro anche spezzoni di partite per fargli capire, ad esempio, perché una certa esercitazione tattica serve a migliorare un aspetto del gioco. E questo approccio funziona".
E se gli viene chiesto se cambierebbe qualcosa del suo percorso totalmente atipico al di fuori dei confini italiani, Cusin non ha dubbi: "Non cambierei niente, perché ho avuto la fortuna di vivere il mondo, di viaggiare tantissimo e di lavorare con Presidenti e Principi. Ho avuto il presidente del City Mansur, il Principe Faisal Bin Turki a Riyad, il figlio di Gheddafi in Libia, ho incontrato Ministri e Capi di Stato. Queste sono esperienze di vita. Detto ciò, se non alleni in Italia non sei considerato un 'allenatore di prima classe’. Ma è sbagliato pensare che l'Italia sia l'esempio massimo per un allenatore o per un giocatore. Non lo è più. Lo è stato negli anni '90, ma nelle ultime due edizioni del Mondiale l'Italia non c'era, oltre al fatto che nelle precedenti due edizioni è stata eliminata al primo turno. Questo deve farci riflettere. Bisogna capire che il mondo va avanti e che ci sono tantissime realtà in cui, vivendo all'estero, riesci a fare cose grandi che nel nostro Paese non riusciresti a fare per cultura. All'inizio mi dispiaceva, ma ora ho capito che questa è la mia strada. Sono un nomade del pallone, quindi non posso fermarmi in un posto solo".