ESCLUSIVA – Petrachi: “Con Cairo non c’è più rapporto. Lautaro al Torino? Ecco la verità”

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Gianluca Petrachi, ex direttore sportivo del Torino, ha condiviso aneddoti esclusivi sulla sua esperienza granata. Ha svelato retroscena su Immobile, Belotti e Lautaro Martinez, offrendo uno sguardo inedito dietro le quinte del calciomercato e le sfide nell’affrontare talenti di questo calibro. Queste le sue dichiarazioni ai microfoni di Numero Diez.

LE PAROLE DI PETRACHI

Quello con il Torino è stato un rapporto durato dieci anni, dalla Serie B all’Europa. Qual è il ricordo più bello di quell’esperienza?

“Partirei più dalla mia prima salvezza con il Pisa. Arrivo in corsa ed è lì che si struttura la mia carriera da direttore sportivo. Se io retrocedo con quel Pisa, che era stato preso da me penultimo in classifica, ormai lontano 2005, io forse la carriera da direttore sportivo la termino così, appena iniziata. Invece, mi salvo all’ultimo secondo dell’ultimo partito dei play-out contro la Massese, con un gol del fratello Di Baggio al 98’. Partita sospesa per lancio di fumogeni e oggetti vari. Quindi noi ci salviamo e la Massese retrocede in C2.

L’anno dopo cambio totalmente l’intera squadra: prendo Braglia come allenatore e, dopo 14 anni dall’era Anconetani, il Pisa risale in Serie B. L’anno dopo ricambio nuovamente l’allenatore e gran parte dei calciatori, reduci da quella vittoria e sfioro la Serie A, perdendo con il Lecce ai play-off. Poi parte il percorso di Torino: un percorso che mi ha regalato tantissime gioie e soddisfazioni”.

In quegli anni, tantissime tue operazioni si sono rivelate virtuose: Darmian e Maksimović, per esempio. Qual è la trattativa più complessa e quale quella che ti ha dato più soddisfazione?

“La più complessa è la trattativa con cui abbiamo portato Cerci al Torino. L’avevo portato al PISA: avevo Cerci, Kutuzov e Castillo, che fu anche capocannoniere. Cerci si ritrovava con me e con il mister: sapevamo quanto potesse essere importante e determinante. Ricordo molto bene anche quando ho preso Maxi Lopez. Era un giocatore che nessuno più voleva, aveva fatto 3-4 partite e il Chievo Verona se ne voleva disfare. Io ero su Pinilla, perché all’epoca eravamo in piena zona retrocessione e ci serviva l’attaccante. Pinilla sceglie il Torino, dall’apertura del calciomercato mi viene soffiato dall’Atalanta. Allora mi fiondo su Maxi Lopez. Naturalmente ero solo contro tutti, perché dicevano che ormai Maxi era un ex giocatore. E invece, a partire da gennaio fece 10/12 volte al giornale. Dalla zona retrocessione, ci ritrovammo in Europa”.

Il 2015 fu l’anno dell’Europa con il Toro. Nella notte di Bilbao, il Torino fu la prima squadra italiana a vincere al San Mamés. Queste sono belle storie: vedi un progetto partire e poi arrivare al suo punto più alto.

“Era una squadra costruita con tanti gregari, tanti calciatori che, come Vives, avevano assaporato la Serie A, ma che non era un assoluto protagonista. L’ho preso dal Lecce, avevamo giocato un anno insieme, quindi lo conoscevo benissimo. Era una squadra di ragazzi tostissimi: Darmian e Glik, presi per pochi soldi e poi venduti. C’erano tanti ragazzi strepitosi, che hanno seguito alla lettera le indicazioni dell’allenatore”.

A mio avviso, una delle operazioni più incredibili che hai fatto è stata a Bremer: arriva per 5 milioni e mezzo dal Brasile e poi viene rivenduto alla Juventus per quasi 50 milioni. Quella fu un’operazione importante, anche grazie a Mazzarri che ci ha lavorato.

“Ne ho subite di ogni quando è arrivato Bremer, anche perché 5 milioni per il Torino erano tantissimi. Noi eravamo abituati a spendere 2-3 milioni, quelli che ci avevano permesso di monetizzare con Darmian. Quando sono andato a vederlo in Brasile, Bremer era un ragazzino giocava poco, però mi colpì questa grandissima personalità, questa velocità, questa forza. Io ero andato lì anche per chiedere Verissimo. Dissi al Presidente: ‘Per Verissimo sarà difficile, perché il presidente del Santos sta giocando al rialzo, è arrivato a 10 milioni”.

Alla fine prendemmo Bremer, anche se certamente andava lavorato. Inizialmente Mazzarri voleva un giocatore pronto da mettere subito dentro, invece Bremer non lo era. Infatti, non l’ha fatto giocare da subito, per sei mesi l’ha lasciato in panchina senza farlo mai debuttare. Una volta lo trovai al Filadelfia con i lacrimoni che mi diceva: ‘Direttore, non so più che fare, perché io mi impegno al massimo’. E poi, come tutte le situazioni, sono venuti meno due giocatori del reparto difensivo e Bremer è stato buttato dentro. Lui si è fatto trovare pronto e da lì è stato un crescendo. Sicuramente è una delle operazioni che mi ha gratificato maggiormente. Il direttore sportivo vive anche di queste cose: la più grande soddisfazione è vedere la prospettiva del calciatore”.

C’è un giocatore che è rimasto nella mente dei tifosi del Torino in quegli anni: Immobile. Lo prendi dopo una brutta annata al Genoa, arriva al Torino a fare coppia con Cerchi e porta il Toro in Europa. Va al Borussia, in cui le cose non funzionano, poi a Sevilla e, infine, torna al Torino. Dopo l’Europeo, il Torino voleva riscattarlo ma si trasferisce alla Lazio. Com’è andata quell’estate? Il Toro voleva veramente tenere immobile?

“Non ho mai abbandonato Immobile, gli sconsigliai di andare a fare questa esperienza in Germania. Lui ha i connotati di un giocatore che deve rimanere in Italia. Ciro è un napoletano ruspante, uno molto sanguigno, legato alla famiglia. Io non ce lo vedevo proprio in Germani. Perché lui è un animale sociale, fa sempre casino. Io gli sconsigliai di non andare, onestamente. Però poi nel percorso, tanto sapevo che sarebbe tornato, l’ho seguito.

Dopo quelle stagioni in cui non fece benissimo, gli dissi: ‘Se vuoi, io ti porto dentro. Torni a fare quello che sai fare e poi, se Dio vuole, avremo la forza di riscattarti e prenderti’. Io non facevo sotto indicazioni dirigenziali, mi sono sempre reputato un aziendalista. Il Presidente poteva spendere quei 10-12 milioni all’epoca, che era il riscatto che avevamo acquisito. Lui venne e fece benissimo. Un mese prima della fine del campionato, attraverso il suo agente Sommella, mi disse che non era più contento e che voleva, per motivi personali, fare una scelta diversa. Ne parlai con il Presidente e gli dissi che Ciro non voleva più rimanere. Quindi, non lo riscattammo per volontà del giocatore”.

L’altro giocatore, che è stato il giocatore dell’ultimo ventennio più importante del Torino, è Andrea Belotti. Preso a 7 milioni nel 2015 dal Palermo: il primo anno fa un po’ di fatica prima nella prima parte, poi nella seconda segna. Rimane al Torino e fa un’annata da 26 gol. Poi arriva l’estate del 2017, in cui si sono dette tantissime cose, ma alla fine è rimasto al Torino. Ci racconti quell’estate?

“A un certo punto il ragazzo inizia ad essere veramente straripante, con un campionato straordinario. Il presidente ebbe la brillante idea di mettergli una nuova rescissoria a 100 milioni in uscita. Questo perché il presidente sa fare marketing e sa vendere il proprio prodotto. Ad un certo punto il Toro inizia a posizionarsi in una situazione di classifica abbastanza inedita. Per tanti anni il Torino non si qualificava per le coppe europee e non faceva così bene. Quindi, nella testa di un presidente come Cairo c’era l’ambizione di trattenere tutti i giocatori e provare a fare ancora uno step successivo.

Per Belotti il Milan si presentò in maniera consistente. Quello era il Milan dei cinesi, quindi non c’erano garanzie economiche. La formula del Milan sarebbe stato un prestito con un obbligo di riscatto, ma il pagamento veniva posticipato nei 4/5 anni successivi. Quindi, nell’operazione da 55 milioni, avresti visto solo una parte dei soldi, gli altri negli anni successivi. In quel momento evidentemente il presidente non se l’è sentita, però c’è da dire che il giocatore voleva andare. Quindi da lì si innescano dei meccanismi che non fanno bene né al calciatore, né al club. Al Milan, Belotti avrebbe quadruplicato il suo ingaggio. Noi glielo sistemammo, ma non avremmo mai potuto raggiungere le cifre del Milan”.

Il Presidente Cairo ha recentemente parlato a Radio 1 e, quando gli hanno chiesto di Belotti, ha detto: “Io non ho mai avuto offerta da 50 milioni, al massimo da 20”.

“Il Presidente ha fatto benissimo a raccontare la sua versione. Io parlavo con il direttore sportivo Mirabelli, che poi si interfacciava con l’amministratore delegato del Milan. Onestamente, l’operazione la ritenevo chiusa. Se si fosse fatta in quel modo lì, così con la versione che… Poi non so se tra di loro (Cairo e Fassone) si fossero detti altre cose. Perché poi io ho sempre portato avanti delle trattative, le ho sempre impacchettate. Poi, nell’ultimo frangente, il Presidente è sempre stato accanto a me, anche perché il potere di firma non l’ho mai avuto”.

Alcuni anni fa un Toro sarebbe potuto diventare del Toro: stiamo parlando di Lautaro Martínez. Perché non è andata bene quell’operazione?

“Andai innanzitutto a vedere il campionato sudamericano. Vidi sia Lyanco, che poi ho preso, che Lautaro Martinez: erano i due giocatori che mi piacquero di più in quel torneo. Volevo prenderli entrambi, ma a noi serviva immediatamente un attaccante. Attraverso Alessandro Moggi, che aveva degli ottimi rapporti con il fratello di Zarate, l’agente di Lautaro Martinez al Racing, dissi che volevo il consenso del giocatore. Il problema non era l’ingaggio, ma il prezzo del cartellino.

Il giocatore l’avremmo potuto chiudere sui 7-8 milioni di euro, ma ballavano 3 milioni di commissioni. Commissioni del genere, al Torino, non le avevamo mai pagate. Dissi ad Alessandro di parlare con Cairo dicendogli i numeri reali. Magari sul cartellino non avrebbe sbattuto ciglio, ma i 3 milioni non li avrebbe fatti passare. E quindi, purtroppo, la trattativa non andò a buon fine e mollammo il colpo. Però sicuramente era un giocatore che volevamo prendere, i diretti interessati lo sanno”.

Dall’esterno la figura del presidente Cairo risulta molto vulcanica. Com’era il tuo rapporto con lui? E com’è cambiato dopo l’addio al Torino?

“Dopo dieci anni volevo fare anche un percorso diverso, era giusto che in quel momento facessi quella scelta. Dopo dieci anni, si instaurano anche dei rapporti che vanno al di là dell’aspetto lavorativo. Penso che Cairo questo l’abbia un po’ patito. E, come tutte le situazioni quando non ci si lascia “amorevolmente”, possono esserci delle frizioni. Onestamente, nel dopo non c’è stato più rapporto: non ho fatto più nulla, né vendere né comprare. Anzi, a Roma c’era proprio il veto che non potessi avvicinarmi ai ex miei calciatori. Però chissà, magari in futuro si tornerà ad avere un buon rapporto”.