“Non abbiamo un centravanti perché il nostro centravanti è lo spazio”
Questa frase di Pep Guardiola è in un certo senso un’icona del calcio di oggi. A prima vista potrebbe sembrare quasi una spacconata o un pomposo tentativo di giustificare un attacco troppo “leggero” per un ambiente abituato all’ariete da un metro e novanta.
Neanche per sogno. Durante un ormai famoso “Clasico” finito 6-2 per i blaugrana, il mister catalano, come poi raccontato nel documentario “Take the ball, pass the ball”, chiese a Messi di arretrare il suo raggio di azioni di circa 15 metri rispetto al solito. Durante una sessione di video notò come i centrali del Real (Cannavaro e Metzelder) rimanevano distanti dalla linea del centrocampo. Quello spazio “inesplorato”, nella sua mente, sarebbe stato occupato da Messi come vertice alto del rombo di centrocampo con Busquets-Xavi-Iniesta. Contro il 4-4-2 offensivo del Real, con Marcelo e Robben sulle fasce, la superiorità centrale del Barcellona è gigantesca. Altro “bug” tattico che emerge, è il comportamento dei due centrali. Andare a prendere alto Messi vorrebbe dire prendere un’imbucata dal terzo uomo libero a centrocampo che serve il taglio interno di Henry o Eto’o. D’altra parte, lasciare Messi libero è come cercare di fermare una valanga a valle di una montagna.
Eurosport “pagellò” Iker Casillas così:
Ne prende 6, ma senza di lui avrebbero potuto essere il doppio.
La genesi di questo ibrido tra enganche e centravanti è molto più lontana del tempo rispetto agli ormai dieci anni passati da questo storico “Clasico”. Il calcio mitteleuropeo, prima di “nascondersi” dietro alla cortina di ferro, è stato un vulcano di idee per il gioco inventato dagli inglesi. Il gigantesco melting pot riunito una volta sotto l’Impero Austro-Ungarico è stato terreno fertile per artisti, scienziati, filosofi. Un caratteristico rumore di sottofondo di note scientifiche ed accenti romantici invadeva i caffè di Vienna. Un ambiente del genere non poteva che apprezzare un giocatore al tempo tanto speciale quanto fuori da ogni schema come Matthias Sindelar. Viennese, figlio di immigrati della Moravia, ‘Der Papierene’ (letteralmente “carta velina”) fu probabilmente il primo centravanti ad uscire dal canone di “ariete”. Sindelar fu il primo pallido esempio di falso nueve del calcio. I suoi coetanei lo ricordano come una saetta filiforme dagli occhi azzurri che poteva giocare sia da rifinitore (come lo chiameremmo oggi) dettando l’ultimo passaggio o da vero e proprio centrocampista offensivo. In ogni caso, qualsiasi giocata venisse dal suo piede faceva parte di un processo mentale guidato da fantasia ed intuito mai visto in uno sport ancora tremendamente rigido.
Chiamato in Nazionale a furor di popolo, fu il tassello mancante al “Wunderteam” austriaco che arrivò a giocare ad armi pari contro i maestri scozzesi ed inglesi. Morì (ufficialmente) avvelenato dal monossido di carbonio di una stufa difettosa ma non prima di aver rovinato la festa al Führer trascinando la “Ostmark” (la nuova Austria dopo l’Anschluss) ad una vittoria 2-1 contro la Germania.
Il vero “trauma” al calcio inglese venne dall’altra metà dell’ex Impero Austro-Ungarico. Diciassette anni ed una guerra dopo l’inghilterra affrontò dei diavoli vestiti di rosso e rimediò la prima vera batosta davanti al suo pubblico. L’Ungheria che arrivò a Wembley quel giorno è il grattacielo venuto fuori dalle fondamenta del “Wunderteam“. L’idea di avere un giocatore a galleggiare tra le linee per sfuggire alla rognosa marcatura del DC del W-M tornò buona agli Ungheresi. Un po’ per necessità (la mancanza di una punta forte fisicamente), un po’ per retaggio storico, Márton Bukovi, coach della MTK Budapest, eliminò definitivamente l’idea di centravanti. L’idea specifica fu quella di tirarlo fuori dalla linea d’attacco e convertirlo in un regista avanzato. Péter Palotás fu il primo “falso nueve” ungherese, abile ed ordinato in cabina di regia. A Wembley quel posto fu però preso da Nándor Hidegkuti. Ala destra di nascita, durante un’amichevole contro la Svizzera Gusztáv Sebes lo mise al posto di Palotás. Sotto di 2-0, l’Ungheria vinse 4-2 e Hidegkuti fece impazzire da solo la difesa elvetica. A Wembley, la libertà creativa e di movimento sapientemente orchestrata dal 9 dell’Aranycsapat fece impazzire gli inglesi. Già la numerazione delle maglie rappresentò un problema. Hidegkuti aveva il 9 come Mortensen dall’altra parte. Mentre Mortensen agiva come centravanti classico, la posizione più arretrata del 9 ungherese creava grossi problemi alla quasi “militare” marcatura ad uomo inglese. Harry Johnstone, DC della Nazionale dei Tre Leoni quel giorno, racconta come non potè assolutamente fare niente per impedire a Hidegkuti di giocare. Il dilemma fu simile a quello che si presentò a Cannavaro e Metzelder. Uscendo in pressione sull’avversario avrebbe spalancato la strada alle imbucate di Ferenc Puskás e Sándor Kocsis, lasciarlo libero significava difendere costantemente in inferiorità numerica di uno o due uomini.
Hidegkuti da solo segnò una tripletta.
Le innovazioni della “scuola danubiana” e successivamente della scuola russa si “dispersero” dietro alla separazione politica e geografica tra il mondo occidentale ed orientale. È curioso pensare però a come nel calcio un’idea, un sistema, un ruolo possa essere fondamentale, poi inutile, di nuovo fondamentale, di nuovo inutile. Della partita di Wembley abbiamo poche testimonianze ma c’è da credere che Johnstone abbia provato 60 anni prima lo stesso senso di abbandono di Cannavaro e Metzelder con Messi davanti. E che Hidegkuti avrebbe sinceramente sorriso se avesse potuto vedere Lionel in campo.
(Fonte immagine di copertina: www.theguardian.com)