La finale di Libertadores promette spettacolo, ancora una volta

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Lo scorso anno, tra novembre e dicembre, tutto il mondo si è fermato per poter assistere all’ultima doppia sfida nella finale di Libertadores tra Boca Juniors e River Plate, ribattezzata per l’occasione final del siglo. L’istantanea che rimane è senza ombra di dubbio quella di Gonzalo El Pity Martínez, che da solo in contropiede al minuto numero 121 percorre tutto il prato del Bernabéu per arrivare a depositare il pallone in porta, lasciata vuota da Esteban Andrada. È il gol del definitivo 3 a 1, che manda in paradiso il popolo dei Millonarios e fa scendere all’inferno gli Xeneizes, dopo il pareggio per 2 a 2 maturato nella partita d’andata a La Bombonera.

Oggi, quasi un anno più tardi, il corso del tempo ha cambiato alcune cose, com’è normale che sia. Nonostante questo, la finale della Copa Libertadores 2019 vedrà ancora il River Plate protagonista, questa volta contro i brasiliani del Flamengo. L’atto finale si terrà sabato sera in Perù, a Lima, diventata sede della finale dopo aver ritenuto Santiago del Cile impraticabile per questioni extra-calcistiche.

IL RIVER PLATE PIÙ FORTE DI SEMPRE?

A difendere il titolo di campioni in carica ci sono proprio loro, il plotone d’assalto del Muñeco Gallardo, che ormai dopo le tante conquiste ottenute in giro per il continente è stato ribattezzato Napoleón dal popolo riverplatense. Iniziò tutto nel 2014, quando Gallardo si sedette sulla panchina del River e vinse la Copa Sudamericana, riportando un titolo internazionale che mancava da 17 anni. In quel lasso di tempo la gente del River ha vissuto anche la tragica retrocessione in Primera Nacional, nel 2011. Un incubo durato solamente un anno e successivamente, grazie a Marcelo Gallardo, il River è tornato a vedere la luce.

La Sudamericana è stata solo l’inizio: in 5 anni sono arrivati 10 trofei, tra cui ben 2 Libertadores, nel 2015 e l’ultima del 2018. Gallardo è diventato l’allenatore più vincente nella storia del club, è l’artefice principale di questo ciclo dorato che sembra non finire mai. Il River ha giocato la bellezza di 13 finali, vincendone 10. L’aspetto curioso è che, fin qui, non è arrivata la vittoria del campionato argentino: quella del Muñeco è una squadra che sa esaltarsi nelle sfide andata/ritorno o nelle partite singole, una sublimazione del “matar o morir”.

Fonte: profilo Instagram River Plate

I Millonarios giocano un calcio europeo, composto da velocità (di pensiero e di esecuzione), intensità, riconquiste alte e transizioni letali. In questi anni la squadra di Gallardo è stata la più forte del continente, bella da vedere ma efficace e vincente allo stesso tempo, il connubio perfetto.

Una considerazione da fare in questo River Plate è che, a differenza delle altre stagioni, la squadra è cambiata pochissimo. Maidana ha lasciato il cuore della difesa per emigrare in Messico e Gonzalo Martínez, il diez della banda, ha scelto la MLS posticipando il suo arrivo in Europa. Lucas Martínez Quarta si è preso finalmente il posto di difensore centrale vicino all’esperto sceriffo Pinola. L’ingresso in pianta stabile del Chino ha aumentato la qualità tecnica in prima impostazione, oltre alle sue conduzioni palla al piede fondamentali.

Un’azione di Martínez Quarta in campionato contro il Veléz: da stropicciarsi gli occhi. 

Il posto del Pity Martínez se lo è preso, con prepotenza, Nicolás de la Cruz, un esplosivo uruguagio del ’97 che in molti davano già per smarrito. Eppure, Marcelo Gallardo lo ha sempre protetto e così in questo semestre Nico lo ha ripagato: 7 gol e 7 assist messi a segno in 20 partite tra campionato e Libertadores.

Nel ritorno dei quarti di finale in casa del Cerro Porteño il River è sotto 1 a 0, dopo aver vinto all’andata al Monumental 2 a 0. Un momento difficile, in cui arriva proprio Nico de la Cruz a far saltare il banco alla Nueva Olla di Asunción. Matías Suárez viene lanciato in profondità, entra in area e calcia addosso ad Andujar (l’ex Catania), la palla finisce al limite dell’area dove arriva l’uruguagio: calcia al volo, con un destro barbaro di collo esterno che spedisce sotto l’incrocio dei pali. Gallardo esulta con le braccia aperte, è un gol fondamentale che permette la qualificazione alle semifinali, ancora una volta El Muñeco ci ha visto lungo.

Semifinali che hanno visto di nuovo il mondo fermarsi, perché è questo il bello del calcio: ci sarà sempre una nuova partita da giocare, e allora ecco servito l’ennesimo Superclásico di Libertadores contro i rivali del Boca. Nelle due sfide di quest’anno è emersa ancora di più la superiorità del River, con una vittoria pesante per 2 a 0 in casa e un 1 a 0 subìto a La Bombonera, che ha fatto qualificare i Millonarios. Il secondo gol nella partita d’andata è una rete che riassume il manifesto del calcio di Gallardo: sono 7 passaggi che iniziano a centrocampo dopo la vittoria su una seconda palla, tutti rasoterra, che mandano al gol Nacho Fernández.

Nacho effettua il terzo passaggio della serie aprendo su Montiel, laterale destro del ‘97 da tenere d’occhio. Dopo il passaggio corre verso l’area del Boca, riceve la sponda di Santos Borré, va in conduzione e apre per Matías Suárez, palla rasoterra sul primo palo sulla quale arriva proprio Nacho Fernández, che timbra il cartellino. Riquelme, idolo del Boca, lo ha definito “il miglior giocatore del fútbol argentino”. Nacho è un autentico coltellino svizzero, riesce sempre a tirare fuori l’attrezzo funzionale al momento in cui si trova la squadra.

Il 4-1-3-2/4-2-2-2 del River è il sistema di gioco più utilizzato, anche se le posizioni sono fluide e sono i princìpi di gioco inculcati dal Muñeco che fanno funzionare il tutto. Una squadra simile ad una fisarmonica, che si accorcia e si allunga alla perfezione, capace di suonare la melodia vincente. Ci sarebbe da spendere qualche parola anche per Exequiel Palacios, la pietra preziosa del calcio argentino, e Rafael Santos Borré, diventato ormai un attaccante moderno pronto per l’Europa. Il primo è un centrocampista del ’98, verticale, ruvido ed intelligente nel rubare la palla all’avversario ma allo stesso tempo delicato nel rifinire l’azione. Un cocktail ben shakerato di caratteristiche tra un cinco e un diez. Questo semestre lo ha consacrato, ritornato al 100% dopo la frattura del perone. Chi lo porta in Europa, fa centro.

Borré invece, colombiano di Barranquilla, città di mare che si affaccia sulla costa caraibica, è il capocannoniere di questo semestre della squadra. Rafael ha segnato 9 gol tra campionato e Libertadores, associandosi benissimo con Matías Suárez, una coppia d’attacco atipica in cui nessuno dei due agisce come nueve puro, ma entrambi si muovono, creano, aprono spazi e finalizzano.

Questo gol contro il Patronato in Superliga è un esempio della funzionalità di Suárez, con Borré che finalizza l’azione.

Il momento di questa Copa che riassume bene cos’è questo River, però, è arrivato agli ottavi di finale contro il Cruzeiro. Risultato dell’andata in Argentina 0 a 0, al ritorno in Brasile non cambia nulla: chi passa si decide ai calci di rigore. Per il River segnano i primi 4 tiratori che sono, in ordine: de la Cruz (’97), Montiel (’97), Martínez Quarta (’96) e Borré (’95), con Armani che para due rigori. River ai quarti di finale, trascinato dalla forza mentale e dalla freddezza dei suoi 4 pibes.

Poche altre volte si è visto una squadra del genere, capace di giocare un calcio a memoria (ribattezzata per l’appunto “La Máquina 2.0”, riprendendo l’apodo del mitico River degli anni ’40) e con un livello di consapevolezza delle proprie capacità così alto.

IL FLAMENGO NON È SOLO GABIGOL

A contendere il titolo ai campioni in carica ci sarà il Flamengo di Jorge Jesus, esperto tecnico portoghese ingaggiato proprio per vincere tutto. Il Mengão torna in finale a distanza di 38 anni, dopo la prima e unica disputata nel 1981, trascinato alla vittoria contro i cileni del Cobreloa dalla leggenda Zico. Tutto questo suona un po’ strano perché il Flamengo è da sempre una potenza del calcio sudamericano, con 35 campionati carioca vinti e 5 Brasileirão in bacheca ed è leader dell’attuale campionato. Inoltre, vanta circa 40 milioni di tifosi in tutto il mondo che, data la quantità, si considerano come una Naçao, cioè una nazione.

La prima cosa che impressiona è leggere i nomi dei giocatori che compongono la squadra: Gabigol, Diego Alves, Filipe Luís, Rafinha, Diego, De Arrascaeta. Ah, questi giocano tutti con la stessa maglia? Sì, e lo fanno veramente bene. Il Flamengo è una squadra di stelle, di giocatori esperti acquistati anche dall’Europa per trionfare subito. Jorge Jesus ha avuto il compito di costruire il contesto per farli esprimere al meglio e ci è riuscito, ritrovandosi a guidare una squadra che ha segnato 95 gol tra Brasileirão e Copa nel 2019 in 46 partite.

Nel percorso di questa Libertadores del Flamengo c’è un momento che accomuna i brasiliani al River Plate, ovvero le difficoltà riscontrate nel rispettivo ottavo di finale. Gli avversari sono gli ecuadoriani dell’Emelec, che all’andata in casa vincono 2 a 0. Al ritorno Gabigol – nei primi 20 minuti di gioco – mette a segno una doppietta, decidendo di caricarsi non solo la squadra sulle spalle, ma l’intero Maracanã. Qualificazione che si decide ai calci di rigore, con l’Emelec che ne sbaglia due e il Mengão che stacca il pass per i quarti.

Il tormentone di questi mesi in casa Flamengo: “Hoje tem gol do Gabigol”, cioè “Oggi deve fare gol Gabigol”. Lo ha fatto spesso. Fonte immagine: profilo Instagram Gabriel Barbosa

La vera forza del Flamengo è chiaramente il reparto offensivo, che può vantare l’intelligenza di Éverton Ribeiro e le qualità di De Arrascaeta sulla trequarti. Entrambi influenzano molto il gioco perché toccano la palla in continuazione, per cercare di associarsi con i compagni più avanzati e rifinire l’azione. Il modulo iniziale con cui parte il Flamengo è sempre un 4-2-3-1/4-1-4-1, che durante la partita subisce variazioni a causa degli scambi di posizione dei 4 giocatori offensivi principali.

Gabigol è il terminale della squadra, ma parte spesso dal centro destra per poi convergere. L’ex-Inter è accompagnato alla perfezione da Bruno Henrique – entrambi sono stati acquistati dal Santos lo scorso gennaio – che sfrutta gli spazi vuoti lasciati dai compagni in cui si inserisce per concludere in porta o cercare l’assist, una sorta di attaccante fantasma. I due sono in completa simbiosi calcistica e hanno raccolto dei numeri incredibili: 52 reti e 19 assist in totale, cioè hanno partecipato a 71 dei 95 gol segnati dal Flamengo, quasi il 75%. La squadra allenata da Jorge Jesus è in una striscia di risultati utili consecutivi che non può passare inosservata: i Rubronegros non perdono da 25 partite (ultima sconfitta il 4 agosto, contro il Bahia), con 20 vittorie, 56 gol segnati e 15 subiti.

Il gol del 2 a 0 del Flamengo, nell’andata dei quarti contro l’Internacional: Gabigol agisce come trequartista, serve Bruno Henrique che controlla la palla, si gira ed incrocia con il destro.

L’esempio più chiaro della qualità e della consapevolezza nel proprio gioco del Flamengo è arrivato nelle due semifinali giocate contro il Grêmio, una delle migliori squadre del Sud America negli ultimi anni. All’Arena do Grêmio di Porto Alegre è finita 1 a 1, con la formazione di Renato Portaluppi che ha pareggiato nei minuti finali del match. Un incontro in cui il Flamengo aveva creato di più, ma non era riuscito a capitalizzare. Nel ritorno del Maracanã i Rubronegros hanno espresso la prova migliore dell’intero torneo, spazzando via il Grêmio con un 5 a 0 senza storia.

Gabigol si stacca dalla marcatura per arrivare sulla palla vagante e poi lascia partire un sinistro brutale. Da notare anche la torsione del corpo per impattare al meglio.

La proposta di gioco della squadra di Jorge Jesus ha nell’impostazione del basso un tassello fondamentale. In questo i due laterali, Rafinha a destra e Filipe Luís a sinistra, svolgono il compito alla perfezione: entrambi contribuiscono grazie alle loro qualità tecniche a salir jugando, capaci anche di entrare dentro il campo per impostare e trovare l’uomo libero, per poi scatenare i quattro davanti. Nei meriti di Jorge Jesus c’è anche quello di aver migliorato Gerson, facendolo diventare un centrocampista completo: il brasiliano è cresciuto in fase difensiva e adesso è anche più presente quando deve costruire l’azione in mezzo al campo, in pochi se lo sarebbero aspettato. Il Flamengo è una squadra che ha tanti punti di forza, sa sfruttare al meglio i suoi campioni e vuole tornare sul tetto del Sud America.

LA GRAN FINAL

Questa finale si presenta di un livello altissimo, sicuramente il migliore negli ultimi anni. Entrambe le squadre giocano un calcio propositivo, con una filosofia di gioco precisa determinata da una forte impronta dei rispettivi tecnici. Da una parte il River, la migliore squadra del continente e attuale detentrice del trofeo, dall’altra il Flamengo imbottito di campioni alla seconda finale della sua storia.

Il mitico Eduardo Galeano nel suo “Splendori e miserie del gioco del calcio” scrive:

“Non sono altro che un mendicante di buon calcio. Vado per il mondo con il cappello in mano, e negli stadi supplico: «Una bella giocata, per l’amor di Dio». E quando il buon calcio si manifesta, rendo grazie per il miracolo e non mi importa un fico secco di quale sia il club o il paese che me lo offre.”

In fondo è bello essere mendicanti di buon calcio.

Fonte immagine in evidenza: profilo Instagram CONMEBOL