Adem Ljajic: il Diez dall’identità irrealizzata

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L’identità è ciò che, nel bene o nel male, ci caratterizza come esseri umani e sociali. La consapevolezza del proprio essere, il sapersi collocare in un determinato contesto che ben si sposa con le nostre peculiarità. Avere un’identità è uno stimolo primario, ma non sempre di facile realizzazione. Spesso la ricerca del proprio posto nel mondo si rivela assai ardua, costellata di illusioni, insuccessi e delusioni. Spesso, una volta trovata la giusta via, ci si accorge che quella strada che abbiamo imboccato ha una forza centrifuga rispetto al resto del mondo, tende ad allontanarci, a far cozzare la nostra identità col contesto in cui siamo collocati. Tutto si riduce a questo, saperci e farci riconoscere. L’identità dunque è ciò che ci caratterizza, nel bene o nel male, ed è ciò che ha caratterizzato la vita e la carriera di Adem Ljajic, uno che ha imboccato una di quelle strade centrifughe, rendendo la propria identità un limite alla propria realizzazione calcistica. Da quella personale a quella in campo, l’identità, tanto, troppo forte, del serbo ha finito per isolare un talento purissimo, annoverandolo tra i geni irrealizzati del nostro calcio. Quella di Ljajic è la storia di un ragazzo che non ha mai rinunciato alla propria identità, con tutto il carico di autodistruzione che ciò ha comportato. Un eroe romantico, incapace di vivere la propria esistenza come il Travis Bickle di De Niro in Taxi Driver. Una scelta che però ci ricorda quanto costi mantenere intatta la propria essenza, a qualunque costo.

RETAGGIO IDENTITARIO

Per comprendere la vera natura di Adem Ljajic occorre tuffarci in un piccolo excursus etno-storico. In uno dei punti più instabili dello scacchiere europeo, i Balcani, si estende un piccolo territorio di 8.686 km², il Sangiaccato. Suddivisa tra Serbia e Montenegro, la regione del Sangiaccato è la terra di una particolare minoranza religiosa, i musulmani bosniaci, noti come Bosgnacchi. I Bosgnacchi sono i bosniaci che si sono convertiti all’Islam durante l’occupazione ottomana, acquisendo dunque una forte identità religiosa, del tutto peculiare in una regione dove è ben radicato il cristianesimo ortodosso.

“Non ci viene concesso di chiamarci bošnjaci (bosgnacchi), ma ci viene invece offerto il nome di musulmani… Accettiamo, anche se questo è sbagliato, perché si apra il processo di riconoscimento della nostra identità”.

Con queste parole il noto politico Hamdija Pozderac, accoglie la decisione del Comitato Centrale del partito comunista bosniaco di riconoscere lo status di nazione ai bosniaci musulmani. È la prima affermazione identitaria di questo popolo, e le parole di Pozderac colgono subito il nodo centrale dell’essenza bosgnacca, l’identità. Correva l’anno 1968, i Balcani erano riuniti sotto l’egida della Jugoslavia, la questione delle minoranze era poco incalzante proprio per via della pretesa unitaria su cui si fondava lo Stato. Ma la pretesa identitaria c’era, era forte e ha sempre contrassegnato l’etnia bosgnacca, che dovrà aspettare il congresso di Sarajevo del ’93 per vedersi riconoscere la giusta pretesa di essere chiamati bošnjaci.

Una veduta del centro città di Novi Pazar

Nel cuore del Sangiaccato sorge la città più importante della regione, Novi Pazar, dove il 29 settembre 1991 viene alla luce Adem Ljajic. La questione dell’identità gli scorre nelle vene, fa parte del suo retaggio, è lo stigma della sua gente. È un fardello che il ragazzo porterà sempre con sé, come un tratto distintivo, quasi più un marchio di riconoscimento, la A che porta sul petto Hester Prynne nella Lettera Scarlatta.

IL MOVIMENTO DELLA BOCCA

28 maggio 2012. Serbia e Spagna si sfidano in una delle tante amichevoli tra nazionali, per lo più prive d’interesse per il grande pubblico mainstream. I giocatori sono schierati nella consueta formazione orizzontale prepartita, partono le note di Bože pravde, l’inno serbo, ma c’è una bocca che, mentre tutte le altre si muovono intonando le parole del canto nazionale, rimane serrata, impassibile. È la bocca di Ljajic, che si aprirà solo nel post partita, per affermare, in maniera concisa, la propria scelta.

Io amo la Serbia, ho sempre voluto giocare per questa nazionale sin da quando ero bambino. Rispetto tutti, ma prima ancora devo rispettare me stesso“.

C’è tutta l’identità di Ljajic in questa scelta che lo porta allo scontro col padre calcistico, Sinisa Mihajlovic, altro personaggio dalla personalità quanto mai definita, nazionalista tutto d’un pezzo, che nella sua selezione non può tollerare un ammutinamento del genere. Quel mutismo costa caro a Ljajic, che non vestirà più la maglia della nazionale nei successivi due anni, ma niente può scalfire la pretesa di identitaria di Adem. Sei anni dopo infatti, in un palcoscenico ben più ampio, il mondiale russo del 2018, la sua bocca rimane ancora chiusa sulle note di Bože pravde. A Ljajic non interessa ciò che questa sua scelta comporterà, una bufera di polemiche incredibile. Non può cantare l’inno che non rappresenta la sua identità profonda, tradirebbe se stesso e le sue radici. La sua storia con la Serbia è contrassegnata da questa diffidenza storica, 9 reti in 45 presenze, un mondiale, molto deludente, all’attivo, e un feeling mai sbocciato.

La bocca di Ljajic invece si muove, eccome, il 5 maggio 2012. In un ordinario Fiorentina-Novara di fine campionato, coi viola tranquilli a metà classifica e i piemontesi matematicamente in Serie B, il serbo viene sostituito e dice qualcosa di troppo all’indirizzo del tecnico Delio Rossi, che in un impeto di furia decisamente inusuale per un rettangolo verde si scaglia sul giocatore colpendolo. Una scena molto pulp, per gli stilemi del calcio, destinata a fare storia nell’almanacco degli avvenimenti più insoliti del nostro calcio. Un’ulteriore riprova del carattere decisamente spigoloso di Ljajic, la cui insofferenza per le regole lo porterà a limitare di parecchio le enormi potenzialità della stella serba.

REALIZZAZIONE IDENTITARIA

Una forte identità personale si accompagna a un’altrettanto indefinita collocazione tattica. Ljajic è quel che è, non si può adattare alle contingenza, il suo io è troppo forte per essere inglobato da esigenze esterne. Dopo aver mosso i primi passi in patria, il giovane Ljajic viene notato dal Manchester United, che lo mette sotto osservazione, ma poi alla fine rinuncia a ingaggiare il giocatore. Un grande uomo di campo come Sir Alex Ferguson deve aver notato qualche linea scheggiata nel disegno complessivo, una prima avvisaglia del destino che sarà. Sfumato lo United, la grande occasione di Ljajic è la Fiorentina. Nel gennaio 2010 i viola si assicurano il cartellino del serbo per 6 milioni di euro.

In Italia Ljajic trova Sinisa Mihajlovic, che crede fortemente nel connazionale, lo sprona a più riprese, lo mette in guardia dai pericoli rappresentati dalla nutella e dal computer, come un padre in apprensione per il futuro del figlio. Si danna, ci prova, ma non ci riesce. Ljajic non esplode, rimane chiuso nel suo guscio, lancia qualche sprazzo si luce, ma poi fa quieto ritorno nell’oscurità. Dopo Mihajlovic arriva Delio Rossi e con lui il fattaccio del 2 novembre. La stella di Ljajic sembra già eclissata, bollata come un fuoco di paglia, ma ecco che arriva l’uomo della provvidenza, l’unico che forse riesce a capire tatticamente il serbo: Vincenzo Montella.

La stagione 2012/2013 scrive una nuova pagina nella storia personale e identitaria di Adem Ljajic. 12 reti in 31 presenze, un accesso in Champions League sfiorato. Nel 3-5-2 il serbo occupa la posizione d’attacco a fianco di un altro slavo, Stevan Jovetic, andando a costituire una delle coppie gol più belle ammirate in Toscana negli ultimi anni. Poi col proseguire della stagione al duo slavo viene aggiunto anche Cuadrado, ma Ljajic mantiene la sua anima da seconda punta, facendo però la spola con la fascia sinistra. I primi due gol della stagione sono una sorta di laccio karmico che rida equilibrio al passato e spiana la strada al futuro. La prima rete arriva in Coppa Italia proprio contro il Novara, sparring partner nel RossiGate personale di Adem Ljajic. Il primo timbro in campionato arriva contro la Lazio, squadra contro cui il serbo aveva già messo a segno il primo gol in assoluto in Serie A, e che punirà di nuovo nel primo derby con la maglia della Roma.

La stagione 2012/2013 funge da manifesto di tutta la potenza del talento di Ljajic, le sue serpentine nello stretto sono un incubo per le difese avversarie, con quei passetti brevi e fulminanti. Da destra, da sinistra, in posizione centrale, Ljajic è ovunque e sempre pronto a far male a un avversario che prima fa sfiancare con la sua danza ritmica, poi infila con fendenti ben assestati. Come detto, però, l’impresa è solo sfiorata. 70 punti non bastano alla Fiorentina per ottenere un piazzamento in Champions League, che forse sarebbe anche meritato. Ma resta comunque il ritorno in Europa dopo tre stagioni di assenza.

DISCESA IDENTITARIA

Quella consacrazione tattica con l’aeroplano in panchina sarà poi la maledizione di Ljajic, che in tutta la carriera non troverà mai più un allenatore in grado di metterlo nelle condizioni ideali come ha fatto Montella a Firenze. Un problema anche personale, visto che il serbo non ha mai fatto niente per adattarsi alle soluzioni tattiche che i vari allenatori gli proponevano di volta in volta.

Dopo Firenze infatti Ljajic entra in un circolo di incomprensioni tattiche e caratteriali senza fine. Un po’ a sorpresa, dopo un’annata del genere e il crescente entusiasmo a Firenze per il grande acquisto di Mario Gomez, il serbo lascia la Toscana e accetta la corte di una Roma che vive uno dei momenti più bassi della sua storia. I giallorossi vengono infatti dalla tragedia sportiva del 26 maggio e Walter Sabatini mette in scena una vera e propria rivoluzione, che stavolta si rivelerà vincente, piazzando sulla panchina della lupa Rudi Garcia. La stagione della Roma è grandiosa a metà, poi si stabilizza, arriva il record di punti, ma la Juventus è sempre stata parecchio lontana. La squadra di Garcia è un meccanismo perfetto, inebriante quando è in campo, letale e armoniosa. Con gente come Totti, Pjanic e Maicon, uno col talento di Ljajic non dovrebbe faticare ad ambientarsi, ma il serbo nonostante un buon impatto rimane ancorato al suo ruolo di riserva di lusso, oscurato da uno Gervinho in evidente stato di grazia. L’anno successivo, con una Roma in palese difficoltà di gioco, Ljajic riesce ad essere più decisivo, concludendo la stagione con 8 gol.

Nonostante i numeri, il serbo non ha avuto mai una grande centralità a Roma, ingabbiato nel 4-3-3 disegnato da Garcia. L’esterno ideale per il tecnico francese è un velocista alla Gervinho, inoltre un giocatore tecnico da cui deve passare ogni pallone c’è già, e non è uno qualsiasi, visto che si tratta di Totti. Roma si fa stretta per Ljajic, che come a Firenze molla dopo la sua migliore stagione, anche se qui è il più il contesto ad espellerlo in maniera quasi naturale. La stagione seguente all‘Inter è molto opaca, resa anche più difficile da un contesto di squadra non all’altezza. Nonostante ciò però, l’estate successiva una figura torna direttamente dal passato di Ljajic, pronto a dargli una seconda possibilità. Quella figura è Sinisa Mihajlovic.

Al torino Ljajic si ritrova, disputa una grandissima stagione, finendo con ben 12 gol, come a Firenze ma con più partite giocate. Qui viene schierato ancora esterno sinistro nel tridente, completato da Belotti e Iago Falque, ma recupera quella libertà di manovra che non poteva avere a Roma, potendo contare su un centravanti che facilita il suo gioco come il gallo. Mihajlovic lo conosce, sa come farlo rendere, è l’allenatore che più si avvicina a Montella in quanto a comprensione assoluta delle esigenze di Ljajic, anche se forse più dal punto di vista personale che tattico. Dopo due anni positivi però, il terzo anno in granata si rivela essere il canto del cigno del serbo. Mihajlovic viene esonerato, in panchina arriva Walter Mazzarri, uno che non può vedere di buon grado l’insofferenza tattica di Ljajic. I rapporti tra i due si fanno sempre più freddi, fino a esplodere quando il tecnico decide di lasciare in panchina il serbo nel derby contro la Juventus, preferendogli Edera. A fine anno Ljajic saluta, ha inizio l’esilio turco e il tramonto della stella serba nel palcoscenico calcistico.

IRREALIZZAZIONE IDENTITARIA

I fallimenti di Ljajic hanno un comune denominatore, la pretesa di imbrigliare il suo talento. Sia a Roma che a Torino con Mazzarri, il serbo non è riuscito a calarsi nelle disposizioni tattiche che gli venivano impartite, esaltando a baluardo della propria personalità quell’anarchia che poi è stata la carta vincente sfruttata da Montella prima, e da Mihajlovic poi, per farlo rendere al meglio. La forte identità di Ljajic non rendeva possibile un suo annullamento in un insieme di costrizioni e obblighi, il suo talento per esprimersi aveva bisogno di libertà, perché la cifra della sua personalità è l’affermazione dell’identità più propria, la scelta che deve essere propria per essere sentita e realizzata. Quando l’identità di Ljajic, che fosse personale o calcistica, è stata sotto assedio, il serbo ha reagito, negando la propria disponibilità, per salvaguardare intatta la propria identità.

Ciò che Adem Ljajic ha lasciato al nostro calcio è un atto di irrealizzazione identitaria davvero unico. Irrealizzazione identitaria, una sorta di ossimoro davvero incalzante perché ciò che ha impedito la piena realizzazione calcistica di Ljajic è stata quella forte identità personale a cui il serbo non ha mai voluto rinunciare. “Rispetto tutti, ma prima di tutto devo rispettare me stesso”. Queste parole sintetizzano alla perfezione la carriera di Adem Ljajic, un ragazzo che non hai mai piegato la testa, che non ha mai voluto adattarsi perché farlo avrebbe significato rinunciare alla propria parte più essenziale. Il paradosso di Ljajic sta nella realizzazione della sua irrealizzazione, che è stata pienamente coscienziosa, anche se autodistruttiva. Da Firenze a Torino, il Diez di Novi Pazar ci ha lasciato una serie di delizie da gustare, ma anche l’amaro in bocca per tutto ciò che non è riuscito a farci ammirare.

 

DaniloD
Scritto da

Danilo Budite