La città di Roma e i romanisti si preparano all'addio di Dybala: quando il tifo è una religione

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I motivi che hanno reso il calcio lo sport popolare per eccellenza sono davvero tanti. Il calcio è uno sport storicamente accessibile, che puó essere giocato e apprezzato da tutti, ha regole facili e una capacità incredibile non solo di far emozionare gli spettatori ma anche di creare un legame indissolubile tra una squadra e i suoi tifosi, i quali la seguono come una vera e propria religione. 

Piccola premessa: non credo che Marx nel definire la religione come l'oppio dei popoli si riferisse proprio alla dimensione calcistica che puó essere associata al termine, ma di fatto per tutti quei tifosi che la domenica, invece di andare in chiesa, si recano al proprio luogo di culto, quindi lo stadio, il calcio rappresenta quella sostanza felice, il vero oppio capace di sospendere, anche se solo per 90 minuti, gli amarissimi problemi della quotidianità. Nel felicissimo mosaico che è appena stato definito, peró, manca un tassello. Come la religione infatti, il tifo presta il fianco a degenerazioni pericolose. La religione può diventare estremismo, la fede calcistica un'ossessione: quello stesso senso di appartenenza che rappresenta la fortuna del calcio muta improvvisamente e lascia posto all'ansia, alla rabbia, alla tristezza. D'altronde lo abbiamo appena detto: il calcio per molti è una droga, ma la droga dà, e la droga toglie.

DYBALA DÀ, DYBALA TOGLIE

La trattativa che (molto probabilmente) separerà Paulo Dybala dalla città di Roma rientra per molti versi all'interno di questo discorso. Il popolo giallorosso, che ha da subito accolto l'argentino come un figlio, ora avverte un senso di paura mai così vero, così reale. I romanisti sentono che qualcuno ha messo le mani su quel meraviglioso giocattolo scintillante, capace di appagare i sensi e far sparire i problemi con una giocata, un controllo palla. Ai tifosi che si sono opposti ferocemente alla cessione del giocatore, in virtù del romanticismo che lega la figura del fantasista ai colori giallorossi, fanno da contraltare quell'altra branca di fedeli che, proprio per quella tendenza inevitabile del tifoso a identificarsi in una squadra, cercano di analizzare la questione da un punto di vista più cinico, più razionale. Come spesso accade la risposta ai grandi dilemmi della vita, perchè a Roma l'affare Dybala rientra assolutamente tra essi, si annida nelle cose più semplici. Una discussione tra tifosi sentita al bar racchiude perfettamente, a mio parere, non solo i diversi approcci di un tifoso ad una trattativa, ma al tifo in generale.


È una torrida giornata di fine agosto, a Roma fa caldissimo e in molti cercano riparo all'interno del bar del quartiere. Io me ne sto seduto al tavolino e, per un inspiegabile tendenza a farmi gli affari altrui, non riesco a non origliare la conversazione che due signori stanno avendo al tavolo accanto al mio. Stanno parlando, ovviamente, della trattativa di Dybala. Il primo cerca con un'insistenza stoica di convincere lo sconsolato amico che la cessione dell'argentino, in fin dei conti, non sarebbe un evento poi cosi tragico. Le teorie finanziarie del signore, seppur degne di una candidatura al premio Nobel per l'economia, si infrangono come onde sulla rocciosa difesa del suo corrispondente, il quale smonta le argomentazioni del primo con una contro risposta vincente. Il signore, in particolare, non comprende per quale motivo il suo amico, nel fare i vari calcoli economici utilizzi il pronome “noi”:  "A noi entrerebbero tanti soldi", "noi faremmo una plusvalenza" "noi risparmieremmo molto sull'ingaggio". La domanda che ne consegue, a mio parere, dovrebbe rappresentare l'articolo 1 della costituzione del tifoso. "Ma questi soldi - dice il signore - arriverebbero a te? Lo stipendio del giocatore, lo paghi te? Risparmieresti te sull'ingaggio? Io so solo che se Dybala se ne va io e mio figlio avremo una ragione in meno per andare allo stadio. 
E io, allo stadio, ce vojo anna’ ".

Ma allora, tra il tifoso che farebbe lo sciopero della fame piuttosto di far partire il proprio campione e il tifoso che cerca di immedesimarsi nella società lanciandosi in calcoli matematici che forse, in verità, non lo riguardano minimamente, chi ha ragione? Forse nessuno dei due, forse entrambi. Il tifo, e qui torniamo al paragone con la religione, va vissuto in maniera personale, unica. Perchè se cosi non fosse, il calcio, alla fine, sarebbe solo uno sport tra i tanti.

PietroP
Scritto da

Pietro Morolli