Il lato emotivo del pallone: quanto le emozioni influiscono nel calcio

Tra le tante fissazioni che accomunano il genere umano, senza ombra di dubbio, si può collocare l’universale feticismo per l’acceso e sgargiante mondo della cromaticità. E’ vero, nel mondo automobilistico e dell’abbigliamento, siamo letteralmente circondati dall’invincibile duo del bianco e del nero ma, nonostante questa dittatura cromatica, resta insito nell’uomo lo stupore e l’ammirazione per i colori vivaci. Se il mondo esterno è ravvivato da una gamma infinita di gradazioni, anche l’aspetto interiore dell’uomo non è da meno, potendo vantare una ricca dotazione di sfumature. A colorare e rendere viva l’anima umana, infatti, ci pensano le emozioni, tonalità caratteriali calde e fredde che dipingono la nostra vita.

 

L’uomo comune, nella sua vita emotivamente colorata, è metaforicamente drogato di sentimenti. Il principio di reazione a questo narcotico è simile a quello che si verifica dopo l’assunzione di una sostanza stupefacente: benessere e felicità alternati a sconforto e malessere, a seconda degli eventi che si susseguono durante l’esistenza e a seconda della risposta caratteriale di ciascuno di noi. Avendo ripetuto più volte come il tratto emotivo sia un carattere comune a ogni essere umano, questa sottolineatura indica che anche i calciatori sono soggiogati al governo delle emozioni. Spesso, infatti, nell’immaginario collettivo, le superstar del pallone sono visti come supereroi invincibili e intangibili da qualsiasi cosa.

Gianluigi Buffon, portiere della Nazionale e ora del Paris Saint Germain.

Come ognuno di noi, invece, anche le stelle del calcio subiscono o giovano dal potere delle emozioni: se lo stato emotivo è felice e positivo, infatti, capita che un calciatore riesca a trarne beneficio innalzando il livello delle sue prestazioni mentre se è negativo può accadere che, tutto d’un tratto, perda i suoi superpoteri calcistici. Quest’oggi Numero Diez, tramite esempi illustri, vi racconterà la storia di alcuni calciatori che hanno trovato nelle emozioni, le loro croci temporanee e le loro resurrezioni.

THE POWER OF LOVE

E’ il titolo di un’iconica e celebre canzone dei Frankie goes to Hollywood. E’ una frase internazional-popolare, adattabile a vari contesti e che sottolinea la forza di questo grande sentimento. E’, infine, una grande verità perché quello di cui ci rende capaci, questa particolare emozione, è indescrivibile. L’amore è la più spaventosa e elettrizzante delle montagne russe, su cui ciascun uomo possa salire: le salite e le discese di questa giostra si presentano, infatti, ripide ma al tempo stesso lievi, terrificanti e contemporaneamente rasserenanti rendendo perfettamente l’idea dell’instabilità emotiva di questa emozione. La felicità che dona l’amore ricambiato è introvabile in qualsiasi altro stato emotivo, così come lo sconforto che porta un rifiuto è imparagonabile a qualsiasi altra fonte di tristezza.

 

Kevin Prince-Boateng nell’anno dello scudetto.

 

Tra i vari passeggeri della giostra dell’amore ci sono anche i calciatori, soggiogati sia dall’affetto verso il pallone che verso il gentil sesso. Una relazione stabile e serena porta benessere ma soprattutto una linfa vitale che dona una sorta di super-potere al calciatore, mentre un rapporto burrascoso devia l’attenzione del top player dal campo privandolo, tutto d’un tratto, del suo talento. Sono tanti i calciatori che si sono dovuti confrontare con il dispettoso folletto dell’amore, prima nemico e poi amico degli innamorati. Tra i casi più celebri, sicuramente, vi è quello riguardante Kevin Prince-Boateng e la famosissima showgirl, Melissa Satta. Nonostante l’attuale aria di crisi tra i due, negli ultimi anni l’ex trequartista del Milan e l’ex velina hanno formato una delle più affiatate coppie dell’asse tra il mondo del calcio a quello della televisione.

Come ogni storia d’amore che si rispetti, prima del fidanzamento vi è la naturale e doverosa pratica del corteggiamento: Kevin, infilzato dalla freccia di Cupido, era letteralmente perso per la bellezza sarda e cominciò un’assillante e romantica campagna di conquista. Melissa, probabilmente evitata dall’angelo dell’amore, non nutriva lo stesso interesse del ghanese, lasciando così Kevin in un limbo fatto di sconforto e tristezza. La negatività extra-campo che affliggeva il numero 27 rossonero, relativa sia allo scarso interesse della ragazza che alla separazione dall’ex moglie, andò inevitabilmente a riversarsi anche sul terreno di gioco: Prince, diventò l’ombra di sé stesso non riuscendo più a dare prova del suo strapotere fisico e tecnico. La pazienza tuttavia, si sa, è la virtù dei forti e Kevin, grintoso calcisticamente e sentimentalmente, si dimostrò paziente sino a quando non riuscì a sovvertire l’umore della bella showgirl. Dopo una lunga battaglia emotiva, Prince era finalmente riuscito a fare breccia nel cuore di Melissa che a sua volta, con il suo amore ricambiato, aveva contribuito a riesumare il talento del ghanese, nascosto sotto la polvere dello sconforto. Come d’incanto, infatti, Kevin ritornò ad altissimi livelli che lo elessero, alla fine del campionato, come uno dei principali protagonisti della vittoria dello scudetto.

Boateng e Melissa Satta insieme ad un evento a Milano

Tutto è bene quel che finisce bene, dice una famosa sentenza favolistica e allora, anche in questo caso, il potere dell’amore ha vinto, dimostrando la sua forza e la sua influenza nel sconfiggere il tedio della tristezza.

 

SE TU CI SARAI, IO CI SARO’

Che cosa è oggi la famiglia? Se ne parla, e forse anche troppo, solo quando è un luogo di incomprensioni e sofferenze mentre non si evidenzia mai la sua primaria caratteristica di rifugio sicuro e comoda placenta. Si oscilla sempre tra una visione fosca e minacciosa di inferno domestico e una visione oleografica di un paradiso di amore. Ogni persona vive una situazione familiare personale e differente, pertanto, ogni valutazione deve essere fatta dopo un’analisi oggettiva singola e dettagliata. Tutt’al più la sentenza “Nessuno nutrirà mai maggiore affetto nei tuoi confronti dei tuoi genitori” corrisponde molto spesso a verità. Il rapporto che lega ciascuno di noi a nostra madre e a nostro padre è carnale, sincero e tremendamente vero: sono il nostro appiglio quando precipitiamo nel baratro dello sconforto e sono la nostra luce nel buio della solitudine. Lo sanno bene i personaggi famosi e, in questo senso, lo sanno bene i calciatori: la fama e i riflettori attraggono le sprezzanti sanguisughe avare di favori che, li esaltano alla stessa velocità con cui li abbandonano in un momento di difficoltà. La famiglia, invece, è e sarà sempre una costante fonte d’amore e per questo, quando viene a mancare un parente stretto, la scivolata morale che si subisce è tremendamente violenta.

Pepito con la sua famiglia ai tempi dello United.
(Photo by John Peters/Manchester United via Getty Images)

 

Nel mondo del calcio questo concetto è particolarmente caro ad un’eterna promessa come Giuseppe Rossi. Quello che conosciamo del celebre Pepito è solo la punta di un iceberg, fatto di passione e sacrifici e partito dalla lontanissima America. In una realtà diversa, culturalmente e calcisticamente parlando, come gli Stati Uniti, un piccolo ragazzino italiano come Giuseppe trova solo nella sua famiglia un sentore di italianità. Nei tratti distintivi dell’Italiano all’estero, caratteriali e non, rientra la sconfinata passione per il calcio; pertanto chi sarebbe potuto essere, se non papà Fernando, il pioniere del pallone a Clifton e nella testa di Giuseppe. La più classica delle passioni trasmesse da un padre al figlio viene, tuttavia, tramandata in una chiave diversa fatta di competenza e umiltà. Fernando è stato per Giuseppe molto più di un padre: è stato un amico sincero e fedele, è stato il suo primo portiere battuto, il suo primo difensore dribblato ma è stato soprattutto un profeta di educazione e modestia.

I suoi occhi carichi di orgoglio, le sue parole dolci al termine di una brutta prestazione, la sua mano ferma e sicura prima di un’operazione: questa è solo una parte di quello che è stato Fernando per Giuseppe ma è quella che più gli manca da quel maledetto 23 Febbraio del 2010. La normale e scontata tristezza generatasi per questa prematura perdita ha trovato conforto nell’ultimo messaggio lasciatogli dal papà, prima di spirare: un bigliettino con scritto i suoi personali comandamenti per diventare un grande calciatore. Nell’assenza di un padre che vive nel ricordo e sulle sue spalle (i numeri 22 e 49, indossati durante la sua carriera, indicano il giorno e la data di nascita del papà), Giuseppe ha colmato questo vuoto con il resto della famiglia e sua moglie Jenna: sono loro ora i suoi primi tifosi, il suo supporto e la sua oasi di pace nei momenti di tristezza e di sconforto.

Pepito Rossi con la maglia numero 49 della Fiorentina, l’anno di nascita del padre.

Perché anche quando ci si sente soli e abbandonati, il ricordo dei momenti felici passati con la propria famiglia e la vicinanza delle persone care fungeranno da inimitabili antidolorifici.

 

UN TROFEO INIMITABILE

La vita di ciascun essere umano, in una prospettiva materialistica, può essere paragonata alla scalata contemporanea di due montagne: la prima di queste salite consiste in una salita involontaria in quanto si identifica nella crescita fisica e naturale mentre il secondo pendio è un processo volontario che si materializza nel processo di maturazione. Concentrandoci su questa seconda ascesa, durante il percorso è normale incontrare processi e ostacoli che contribuiscono a creare la personalità di ciascuno di noi: alcuni sono comuni a tutti, altri solo ad alcuni. Uno di questi processi esclusivi consiste sicuramente nella nascita di un figlio: questo particolare evento, infatti, è diffuso ma non universale.

 

Diventare mamma e papà consiste nel guadare un pericoloso fiume, partendo dal lido dei figli per arrivare a quello dei genitori. In questo viaggio lungo 9 mesi, è possibili incontrare coinvolgenti onde di eccitazione ma anche pericolosi turbini fatti di responsabilità e imprevisti. Al termine di questa navigata, tuttavia, si ottiene la più grande gioia mai ricevuta prima e la consapevolezza che tutto quello a cui si dava importanza prima, in confronto all’esserino che si stringe tra le proprie braccia, erano patetiche quisquiglie. C’è chi, tuttavia, si trova a vivere quest’avventura con le fattezze di un incubo più che di un sogno: è quello che è capitato al centrocampista del Manchester City, David Silva e alla sua compagna.

David Silva stringe tra le braccia il piccolo Mateo per la prima volta.

 

Nel viaggio dei coniugi Silva, infatti, il naufragio del loro sogno comincia dopo soli tre mesi dall’inizio del cammino: un inspiegabile e improvviso dolore della moglie, la corsa all’ospedale e un parto difficoltoso portano alla nascita di Mateo,25 settimane prima del termine. Il bambino, esageratamente prematuro, è subito colpito da una serie di disfunzioni fisiche che, a detta di molti, lo danno per spacciato. La tranquilla camminata verso un sogno, diventa improvvisamente una tragica corsa contro il tempo. David, nel mezzo della stagione con i Citizens, raggela e si chiude in una bolla di sconforto: si allena, si rende disponibile da professionista quale è ma la sua testa è ovviamente a Valencia dove Mateo lotta, ogni giorno, contro la morte. Dimentica di proposito i parastinchi, finge di dover andare in bagno e si inventa mille scuse pur di mettersi al telefono con i medici: le risposte da Valencia, tuttavia, sono enigmatiche e contribuiscono a gettarlo nel tunnel dell’angoscia.

 

Guardiola, conscio del valore di momenti come questi, concede a David un permesso a tempo indeterminato per raggiungere la moglie e il figlio. Dietro lo spesso vetro del reparto, il talento spagnolo passa giorno e notte a vegliare il piccolo che lotta strenuamente ora dopo ora. Dopo interminabili frazioni di tempo, dopo ore passate sulle fredde sedie della sala d’aspetto, come il migliore dei lieto fine, arriva l’insperata notizia: Mateo, da vero guerriero, ce l’ha fatta ed è fuori dal pericolo di vita. Tra le lacrime di gioia generali per la fine di un incubo, a David viene consegnato tra le braccia il figlio. Come i padri alle prime armi, non conosce la posizione ottimale per tenerlo e in un primo momento lo alza come ha fatto con gli innumerevoli trofei vinti in carriera. Tra le risate generali, David viene investito da una emozione impareggiabile e una grande verità: non c’è nessun mondiale, europeo o Premier League paragonabile a Mateo perché questo è e sarà per sempre, il premio più importante della sua vita.

 

NEVER GIVE UP

E’ una delle frasi più ricorrenti impresse sulla pelle. E’ una delle didascalie più usate sui social. E’ il titolo di numerose opere letterarie e musicali. Dietro quest’iconica e significativa frase si cela un grido di battaglia, un inno alla strenua e imprescindibile forza di volontà che deve sempre accompagnare l’uomo, in qualsiasi esperienza della sua vita. Facile a dirsi ma a farsi? Non è semplice “Non mollare mai”quando la fortuna si gira continuamente dall’altra parte. Non è facile pensare di andare avanti quando perdi una persona importante e unica come un padre. Non è scontato decidere di affrontare di petto e con coraggio, a soli 25 anni, un tumore al testicolo. E’ arduo, ma Francesco acerbi ha deciso di andare avanti e di combattere tutto questo.

 

La storia di uno dei giocatori più sottovalutati e mistrattati del nostro campionato è un cammino fatto di parole dure, eventi tragici e brusche cadute a cui Francesco ha risposto con il duro lavoro, dei silenzi infiniti e delle strenue risalite. Difensore sul campo da gioco ma attaccante nella vita perché come i famelici predatori dell’area di rigore, Francesco è dotato di quella garra tanto recentemente decantata dalle televisioni. Uno spirito battagliero forgiatosi nel tempo e non insito nel carattere del difensore lombardo che faceva della sregolatezza e dell’amore per la vita notturna, i suoi dogmi giovanili. Dopo un’esplorazione della penisola da nord a sud e un’ottima stagione al Chievo Verona, il difensore milanese corona il suo sogno di giocare per gli amatissimi colori rossoneri. Dal “ce l’ho fatta”gridato mentalmente sotto via Turati, al “che fine ho fatto”tuttavia passa veramente poco, precisamente 6 mesi impreziositi da 6 presenze, fischi e critiche da parte di Allegri e Galliani per la sua scarsa professionalità.

Acerbi ai tempi del Milan.

 

Ritorna al Chievo ma solo per un semestre perché a Giugno viene spedito dal Genoa, proprietario del suo cartellino, a Sassuolo. Una nuova avventura, l’ennesima, recepita all’inizio in maniera superficiale, perché ancora era vivo il rimpianto per non aver lasciato il segno al Milan. Una doccia gelata, tuttavia, lo risveglia dal torpore del ricordo: nelle visite mediche con i neroverdi, infatti, viene visitato ben più del previsto e il “c’è da rivedere qualcosa” finale suggella dei timori accresciuti ora dopo ora. Parole come linfonodi, noduli e tumore cominciano, pericolosamente, ad aleggiare nella stanza. Nessuno ha il coraggio di essere chiaro, lui però vuole essere informato della verità. Quindi la diagnosi, l’operazione al San Raffaele, l’asportazione del testicolo. Il suo primo pensiero? Stappare una bottiglia di vino. Alla famiglia lo dice dopo, perché la madre non avrebbe sopportato un altro grande dolore dopo la morte del marito.

Il ritorno in campo dopo l’operazione.

Il male sembra passato ma il peggio deve ancora venire. Si perché dopo il ritorno in campo nella trasferta di Verona, nelle giornate successive, dopo un 2-2 con il Cagliari, risulta positivo alla gonadotropina corionica: una sostanza utilizzata per la cura del cancro ai testicoli, a quel giro presente in una quantità più alta della norma.Non essendo in quel momento in cura, scatta la squalifica. Dietro, però c’è soltanto il riacutizzarsi della malattia. Questa volta la madre lo scopre subito dalla televisione, lui però non si scompone e continua a lottare. Affronta quattro cicli di Chemioterapia e guarisce grazie all’aiuto dell’insostituibile fratello e del dottore Paolo Minafra, quasi un secondo padre e una vera e propria roccia morale per lui.

 

Battaglie come quelle affrontate da Francesco, inevitabilmente segnano nel cuore e nell’animo: la paura iniziale, affrontata con impareggiabile coraggio porta a un naturale processo di maturazione e ad una maggiore consapevolezza del reale valore delle cose. Le due battaglie vinte dal ragazzone lombardo sono cicatrici destinate a rimanere e fare da monito che nulla nella vita è scontato. Ora, nella sua seconda vita calcistica, Acerbi lo sa ed è pronto a ritinteggiare la sua vita con un acceso biancoblu laziale per riempire definitivamente il murales della sua vita.

Acerbi e la sua seconda vita laziale.
(Photo by Marco Rosi/Getty Images)

 

Colori e emozioni, sentimenti e tonalità: questi mondi si intrecciano, si completano e affascinano l’uomo e il mondo del calcio che non possono fare a meno di tutto questo. Perché i colori rendono tutto più bello ma soprattutto perché le emozioni colorano la nostra vita.

PietroP
Scritto da

Pietro Andrigo