Erano le 20:20 locali del 6 aprile 1994 quando a Kigali, capitale del Ruanda (o Rwanda), un jet trimotore Dassault Bréguet Falcon 50 con 12 passeggeri a bordo venne abbattuto da due missili terra-aria SA-16. Un duplice scoppio, un forte bagliore nel cielo e una drammatica caduta a precedere una fragorosa esplosione.

Questo l’istante in cui ebbe di fatto inizio quello che sarebbe poi passato alla storia come uno dei crimini più cruenti contro l’umanità: il genocidio del Ruanda.

A essere abbattuto quella sera da terroristi (perché non potrebbero essere descritti altrimenti), la cui identità a distanza di ventisei anni è ancora tema di dibattito, fu l’aereo che trasportava l’allora Presidente del Ruanda Juvénal Habyarimana, il parigrado del Burundi Cyprien Ntaryamira, sette tra ministri e collaboratori del capo di stato ruandese e tre membri dell’equipaggio di nazionalità francese.

Un assassinio che nel giro di poche ore trasformò la guerra civile, che ormai già da qualche anno affliggeva la popolazione del Ruanda, in una disumana e sanguinosissima pulizia etnica. La nuova missione lanciata dagli estremisti Hutu era infatti chiara: eliminare per sempre l’etnia dei Tutsi.

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DIVIDE ET IMPERA

Ma chi sono gli Hutu? E i Tutsi? E perché abbiamo deciso di parlarvi di Ruanda, di politica, di guerra qui, in un contenitore nel quale solitamente vi offriamo notizie di calcio? Ci arriveremo, abbiate pazienza. Quello che possiamo dirvi subito è che il calcio ha un forte legame con questa terra e che nel Ruanda post genocidio il pallone ha svolto un ruolo di collante sociale utile a far ripartire una nazione messa in ginocchio dalla perversione e follia umana.

È nel calcio infatti che molti ruandesi hanno imparato a riconoscersi come un popolo unito, accantonando l’insano desiderio di capire chi tra Hutu e Tutsi fosse maggiormente degno di essere considerato il padrone e chi lo schiavo (ciò purtroppo non vuol dire che alcuni politici non abbiamo continuato a seguire il diktat divide et impera).

Ma andiamo per ordine. Prima di arrivare al cuore della storia che vi vogliamo raccontare, quella che come protagonisti vede uno sport e due nazioni, è indispensabile dedicare qualche riga alla breve spiegazione del chi, del dove e del quando. Dobbiamo infatti stabilire il contesto, senza avere però quella presunzione di rispondere anche alla domanda del “perché?”, per la quale non sarebbero abbastanza neppure le infine parole che abbiamo a disposizione.

La storia del Ruanda è infatti complessa e riassumerla interamente qui vorrebbe dire semplificare insensatamente ciò che non può essere semplificato.

Ci limiteremo dunque a fornire le coordinate della nostra storia, sperando che ciò possa suscitare in voi quella curiosità che vi porterà ad approfondire una tematica che ha molto da offrire. Quella stessa curiosità che ha suscitato in noi il contenuto della prima puntata della docu-serie di Amazon Prime Video dal titolo ‘This is Football’ (di cui vi consigliamo la visione come già fatto in tempo di lock-down). Un prodotto comparso sulla piattaforma streaming circa un anno fa ma il cui contenuto è senza tempo, essendo il filo conduttore lo stretto legame che il calcio riesce spesso a intrecciare con il quotidiano vivere di chi lo ama.

Proprio ciò che è accaduto in Ruanda, terra delle mille colline e dei gorilla di montagna.

Ma torniamo a fissare le coordinate del nostro viaggio. Vi abbiamo detto che parleremo di Ruanda, di Hutu e Tutsi e di un genocidio che ha finito col cambiare – almeno in parte – la storia di questa nazione.

NON È SOLO UN GIOCO

Posizionato nell’Africa orientale, dove a fargli da cornice sono la Repubblica Democratica del Congo, l’Uganda, la Tanzania e il Burundi, il Ruanda è uno degli Stati più poveri al mondo. Casa di oltre 11 milioni e mezzo di esseri umani, la sua popolazione è costituita essenzialmente da tre etnie: gli Hutu (prevalentemente agricoltori), i Tutsi (prevalentemente allevatori) e i Twa.

I primi sono il gruppo etnico più diffuso sul territorio (circa l’85%) e originariamente erano identificati come coloro che si occupavano dell’agricoltura e sovraintendevano al potere religioso. I secondi agli albori rappresentavano invece l’aristocrazia, possedevano terre e bestiame e sono passati alla storia come le vittime di un genocidio. I terzi infine sono i primi a essersi insediati in questa terra, nonostante oggi costituiscano solamente l’1% della popolazione ruandese.

Colonia tedesca dal 1884 al 1919 e successivamente affidata al controllo belga dalla Società delle Nazioni fino all’indipendenza ottenuta nel 1962, il Ruanda nel corso della sua storia ha visto svilupparsi a fasi alterne il dominio sul territorio talvolta degli Hutu, talvolta dei Tutsi, con i “padroni” belgi che nel corso del loro dominio coloniale finirono con l’inasprire le tensioni tra queste due fazioni.

Per semplificare i genitori di Bruxelles consideravano i Tutsi il figlio preferito, ritenendo invece gli Hutu la mela marcia della famiglia. Una distinzione netta il cui fine era ovviamente quello di dividere in più fazioni il territorio e renderlo così più facilmente governabile (ricordate il divide et impera?). Venne addirittura introdotto un nuovo documento d’identità sul quale veniva impressa a chiare lettere l’etnia di provenienza (Hutu, Tutsi o Twa), dando vita così a uno strumento che nel 1994 si rivelò utilissimo a velocizzare l’uccisione tra le 800.000 e il milione di persone, la cui vita venne tolta durante 100 giorni di genocidio. Di quartiere in quartiere, a colpi di machete, trasformando spesso i vicini di casa in nemici dai quali difendersi.

È arrivato però ora il momento di introdurre con maggior forza l’elemento calcio nel nostro racconto.

Forse l’accostamento di tutti questi soggetti in un’unica storia potrebbe generare un momentaneo stato di confusione, ma non preoccupatevi, proveremo a mettere ordine e per farlo ci lasciamo guidare dalle parole di Didier Bana – uno degli allenatori e coordinatori di Football for Hope, Peace and Unity – trovabili in versione integrale su Goal-click.com:

“Perché il calcio è così importante in Ruanda? Noi diciamo che il calcio in Ruanda non è solo un gioco. Sin dalla sua importazione da parte dei missionari della Chiesa Cattolica negli anni ’20, il calcio ha attratto ogni ruandese e il ruolo che ha giocato nel processo di riconciliazione del popolo dopo il genocidio del 1994 è qualcosa di speciale. Il calcio in Ruanda è una storia potentissima di colonialismo, tensioni politiche, amicizia e solidarietà. Il Re Mutara III Rudahigwa (il primo a essere battezzato come cattolico, ndr) durante il suo regno tra il 1931 e il 1959 promosse il calcio a sport numero uno della nazione. Nacquero così i primi club e negli anni ’70 e ’80 il calcio divenne poi uno strumento di radicalizzazione della nazione. Molte società vennero create su base politica (ad esempio per riunire i Tutsi divisi dalle persecuzioni perpetrate dagli Hutu, ndr) o regionale. Negli anni ’90 divenne addirittura il luogo in cui le diverse milizie potevano reclutare giovani combattenti. Durante il genocidio l’appartenenza a diversi club di calcio poteva risultare anche una questione di vita o di morte, visto che molti giocatori sopravvissero solamente grazie ai colori che difendevano in campo”.

Non vi abbiamo detto fin dall’inizio che il calcio ha un forte legame con questa terra? Di carne da buttare sul fuoco ne abbiamo però ancora molta ed è per questo che ora prendiamo una fetta di football in salsa inglese, l’adagiamo sulla griglia e le lasciamo prendere tutti quegli aromi che solo il barbecue sa regalare, accompagnando l’attesa della cottura con la spiegazione del perché stiamo per servirvi ora questo piatto.

Se il calcio e il Ruanda hanno infatti ormai da mille anni un rapporto particolare, ad avere un posto speciale nel cuore di tutti i calciofili ruandesi è il football di sua Maestà: la Premier League.

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ADIEU FRANCE, WELCOME ENGLAND

Membro del Commonwealth dal 2009, già un anno prima il Ruanda aveva abbandonato il francese a favore dell’inglese come lingua ufficiale del sistema scolastico e universitario, decisione che rendeva di fatto l’inglese la seconda lingua dello Stato dopo il Kinyarwanda.

Questo elemento ha senza dubbio spinto le nuove generazioni di giovani ruandesi ad avvicinarsi sempre più a una cultura del Regno Unito, amplificando così quell’amore per il calcio inglese che l’Africa ha sempre provato almeno dagli anni ’50 del Novecento in avanti, quando prima i risultati delle gare venivano riportati sui maggiori giornali presenti nel continente e successivamente diffusi grazie alla BBC e al suo servizio accessibile ormai a livello mondiale.

Come raccontato nel libro The Age of Football: The Global Game in the Twenty-first Century scritto dal giornalista e storico inglese David Goldblatt, a offrire ancora maggiori contenuti calcistici al popolo africano fu l’arrivo a metà degli anni ’90 di DSTV, maggior emittente satellitare anglofona di tutta l’Africa, e della sua controparte francofona Canalsat Afrique. Per la prima volta il calcio europeo fu trasmesso infatti in diretta nel continente nero con regolarità, permettendo a bar, cinema e altri luoghi di ritrovo di diffondere il verbo del calcio tra la gente. Ci fu così chi si appassionò subito al calcio francese, chi a quello portoghese e chi – la maggior parte – a quello inglese.

“Uno studio condotto da ‘Sportmarkt’ nel 2011 ha rivelato che il 72% degli africani è interessato al calcio, che il 55% segue la Premier League e che il 39% supporta una squadra inglese. Nessuno può contare il numero di africani che segue il calcio nei bar, ma si stima che 300 milioni seguano regolarmente la Premier League”.

Ma perché proprio la Premier League? Tempismo, gente. Come spesso accade nella vita, a fare la differenza è stata il tempismo. Un tackle perfetto del calcio inglese ai danni del collega francese, la cui lega maggiore era forse la più seguita in Ruanda prima del genocidio del 1994.

Il ruolo che la Francia scelse però di giocare durante la guerra civile e soprattutto durante quei 100 giorni di sterminio che nessuno in Ruanda potrà mai dimenticare portò il nuovo governo a bandiera Tutsi – uscito se così si può dire vincitore da un massacro che vide quasi scomparire la loro etnia – decise di interrompere ogni rapporto con gli “amici” di Parigi, sostituendoli con quelli londinesi.

Adieu France, welcome England. E benvenuta Premier League, lega nata nel 1992 per sostituire la vecchia First Division, arricchire le emittenti pronte ad acquistarne i diritti e diffondere ancor di più il verbo del calcio inglese nel mondo. Che dire, missione compiuta! Con il Ruanda che si lasciò presto catturare dalle prodezze dai finalmente vincenti Red Devils di Sir Alex, dal pirotecnico Blackburn di Shearer e Dalglish, dal nuovo Arsenal di Arsene Wenger. Ogni ruandese adottò una squadra di Premier League da seguire e tifare, finendo ben presto per rendere i matches provenienti dalla terra del bardo Shakespeare più popolari di quelli della Premier League locale, presente sul territorio dal 1975.

UN CALCIO ALLA POLITICA

“Perché i ruandesi sono così ossessionati con la Premier League?” si è chiesto il New Times in un articolo apparso nel 2014 sul sito della maggiore testata giornalistica privata del Ruanda. “Le nostre menti sono state colonizzate”, l’unica risposta che l’autore è riuscito a darsi, ammettendo come la Premier League inglese abbia ormai preso da tempo il posto di quella ruandese nel cuore dei tifosi.

Ed è così che infatti sono nati i primi fan club, è così che l’attuale Presidente Paul Kagame (salito al potere nel 2000 ma già precedentemente leader di fatto della nazione dal 1994 in poi quando con il suo Rwandan Patriotic Front fermò militarmente l’azione genocidaria degli Hutu) si è rivelato con un tweet come tifoso dell’Arsenal ed è così che molti giornalisti africani hanno iniziato ad associare addirittura i politici locali ai club inglesi.

Non ci credete? Bussiamo nuovamente alla porta di David Goldblatt e ve lo lasciamo spiegare direttamente dalle parole che lui stesso ha impresso nero su bianco nel già citato The Age of Football:

“In Kenya per esempio i politici erano sistematicamente associati ai club di Premier League. William Ruto era il Leicester City, emerso dal nulla e arrivato a prendere il posto dei grandi, mentre Kalonzo Musyoka, un ex vicepresidente le cui ambizioni di diventare lui stesso presidente non hanno trovato fortuna nella realtà, era il Manchester United, colui di cui tutti parlavano un tempo ma che poi ha visto scemare la propria forza”.

Semplicemente un’ossessione. Quella stessa ossessione che ha portato un gruppo di uomini e donne ruandesi a fondare il Rwanda Reds, fan club del Liverpool il cui obiettivo è quello di diffondere l’amore per i Rossi del Merseyside nella nazione.

“Non siamo Hutu o Tutsi, siamo tutti ruandesi e siamo tutti tifosi del Liverpool”. Questa l’idea ben impressa nella mente di ogni membro, a dimostrazione di come il pallone sia diventato quel migliore amico al quale in molti hanno deciso di tendere la mano dopo gli orrori della guerra.

D’altronde il calcio dal 1994 in poi in Ruanda è stato un vero e proprio collante sociale. Se avete prestato attenzione, queste parole non vi suoneranno nuove. Le abbiamo infatti già utilizzate all’inizio del nostro racconto e ora ci sembra doveroso spiegarne il perché.

COLLANTE SOCIALE

Ora infatti sapete chi sono gli Hutu. Sapete chi sono i Tutsi. E sapete del terribile genocidio perpetrato dai primi nei confronti dei secondi, non dimenticando però di sottolineare come tra il milione di vittime di questa insensata guerra ci siano anche diversi Hutu moderati e per questo massacrati dagli estremisti. Sapete che il calcio è stato utilizzato spesso come luogo in cui reclutare nuovi combattenti devoti alla causa, convincendoli che brandire un machete e togliere la vita ad altre persone fosse insensatamente meglio che calciare in rete un pallone.

Ciò che non sapete ancora è invece di come i campi da calcio si siano trasformati poi nelle piazze in cui riunire Hutu e Tutsi sotto la stessa bandiera, quella del Ruanda.

È lì infatti, su campi polverosi in terra battuta che le vittime si sono ritrovate ad abbracciare i propri carnefici. Le carceri non avevano più spazio per accogliere gli assassini troppo numerosi e così molti di questi sono rimasti in libertà. C’è poi chi ha scontato pene ridotte e chi ha beneficiato di diverse sanatorie che negli anni hanno finito per riconsegnare alla strada quegli individui che quelle stesse strade avevano trasformato in fiumi di sangue.

Ed è così che la terra li ha accolti, quella dei diversi campi da calcio, dove tutti si sentivano finalmente fratelli. Non Hutu. Non Tutsi. Ma tutti ruandesi, pronti a perdonare gli uni agli altri gli orrori compiuti fino a quel momento per poter costruire insieme un nuovo futuro.

Brividi. È impossibile infatti non provarne quando si assiste a un atto che la logica definisce come irrazionale ma che presuppone invece nel suo stesso essere un coraggio difficilmente eguagliabile. Un coraggio manifestato da chiunque l’11 settembre 1994 fosse presente a Kigali in occasione della prima partita ufficiale di calcio post genocidio, quella che vide il Kivoyu affrontare il Rayon Sport.

Che storia vero? E pensate che il 6 giugno 2003 la nuova Nazionale del Ruanda unito riuscì a sconfiggere per 1-0 il Ghana grazie alla rete di Jimmy Gatete al Kigali Stadium, regalando alle Vespe la prima storica qualificazione alla Coppa d’Africa.

Il calcio come collante sociale. Ma anche come nuovo motore economico. Perché il football in Ruanda oggi è anche questo.

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PER UN PUGNO DI STERLINE

Ricordate infatti che il Presidente Kagame – la cui figura politica e il ruolo interpretato nella guerra civile ruandese sono talmente complessi da non poter essere spiegati approfonditamente qui – è un grande tifoso dell’Arsenal ma sapevate che per questo nel 2018 ha stipulato un contratto di tre anni per porre la dicitura ‘Visit Ruanda’ come sponsor sulla manica sinistra delle maglie indossate in campo dai Gunners?

Un affare da circa 30 milioni di sterline in entrata nelle casse del club londinese, il quale si è poi impegnato a inviare alcuni dei propri allenatori in Ruanda per insegnare nuove tecniche ai colleghi locali, nonché una leggenda e uno degli attuali giocatori: vedasi i recenti viaggi sia di Tony Adams che di David Luiz e famiglia a Kigali.

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Una mossa economica legata al calcio che ha pagato i suoi dividenti, aumentando considerevolmente la percentuale dei turisti in Ruanda, nonostante diversi politici nel vecchio continente abbiano criticato questa partnership, visti i fondi che l’Inghilterra – così come altre nazioni – forniscono ogni anno al Ruanda per provare a risollevarne l’economia.

Critiche che non hanno però fermato Kagame dallo stringere un nuovo accordo questa volta con il PSG, altro club che dallo scorso anno ha accolto l’ormai famoso ‘Visit Ruanda’ tra i propri sponsors. Sì, lo sappiamo vi avevamo detto che i rapporti con la Francia dal 1994 erano stati interrotti, ma ci siamo dimenticati di dirvi che dal 2009 sono anche stati ripresi dal governo ruandese.

Il calcio come collante sociale. Tutto torna, o quasi. Perché se siete rimasti con noi fino alla fine di questo lungo viaggio alla scoperta del Ruanda avrete sicuramente capito che ancora molto c’è da raccontare per poter riuscire ad allineare coerentemente tutti quei tasselli che hanno segnato la storia di un Paese così complesso.

Noi abbiamo provato a raccontarvi quella che riguardava in particolare un pallone e due nazioni, unendoci dove necessario politica, guerra, vita e morte. Ingredienti irrinunciabili per la riuscita del nostro piatto.

Un piatto che speriamo vi abbia soddisfatto ma non saziato del tutto. Sta infatti a voi ora decidere se alzarvi da tavola o se continuare a impugnare forchetta e coltello, decisi a scoprire cosa si nasconda dietro a ogni singolo ingrediente.

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