La stagione in corso per il Cagliari non è solo quella del centenario, ma anche quella che segna i cinquant’anni dalla vittoria dello scudetto del 1970. Un’impresa storica entrata nell’immaginario di tutti i tifosi dell’epoca, che portò un’isola intera sul tetto del calcio italiano. Una storia di riscatto, di miti e di libertà. 

LA RIVINCITA DI UN’ISOLA

Sardegna: terra di banditi, pastori e pecore. Era più o meno questa l’idea che l’Italia di quegli anni aveva dell’isola, considerata un posto inospitale e aspro, ancora arretrato rispetto alle nuove abitudini del Nord e del Centro, che invece crescevano economicamente e si aprivano a nuovi costumi. La Sardegna era selvaggia, isolata, ancora intatta: vaste distese di vegetazione arida controllate da pastori e da banditi, niente a che vedere con la produttività di Torino e Milano, con il fascino di Roma e Napoli, con il fermento di Bologna. La Sardegna, questo (più precisamente lo stadio Amsicora) il teatro dei sogni: una terra sconosciuta e per questo percepita come inospitale, che però quasi tutti i protagonisti dello scudetto sceglieranno poi come casa anche negli anni a venire. Uno su tutti Gigi Riva, rimasto visceralmente legato a quest’isola, diventato a Cagliari uno dei calciatori italiani più forti di sempre. Quel ragazzo di Leggiuno, sbarcato appena diciannovenne nel 1963 a Cagliari, descrive così il primo impatto con questa terra:

“L’idea di un trasferimento al Cagliari mi faceva quasi paura. Quando poi sono arrivato, ho pensato subito che non sarei rimasto a lungo, nel campo non c’era un filo d’erba, era un deserto. Una sera ero in albergo e scherzando ho pensato che dalla finestra si potesse addirittura vedere l’Africa”. 

Nel 1964 però Riva conquista subito la Serie A con il Cagliari. Decide dunque di restare, e da quel momento non torna più indietro. Il Cagliari si affaccia sul grande palcoscenico e inizia ad affermarsi come una realtà della massima serie, sfiorando lo scudetto nel 1969 e conquistandolo, appunto, nel 1970. La vittoria di quell’anno è storica perché rappresenta il riscatto calcistico di una piccola squadra nei confronti delle grandi del Nord, ma soprattutto l’orgoglio di un’isola che alza la testa e afferma la propria supremazia rispetto alla nazione che la vede invece come un luogo subalterno. È la felicità di un popolo che, ancora oggi, festeggia quell’impresa sportiva ed è grata agli eroi dello scudetto. La vittoria del Cagliari è però anche l’affermazione di una squadra molto forte: quel successo non fu un caso. È il traguardo meritatamente raggiunto da undici guerrieri, guidati da un comandante e ispirati da un filosofo. 

UNDICI EROI

Albertosi Martiradonna Zignoli Cera Niccolai Tomasini Domenghini Nené Gori Greatti Riva. 

Da ripetere senza esitazioni, tutta d’un fiato. Questa la formazione dello storico scudetto: una squadra forte, come detto. Basti pensare che appena due mesi dopo Sa Die («il giorno», quello dello scudetto, il 12 aprile), quattro di questi undici sarebbero stati titolari in Italia – Germania 4-3, gara dei Mondiali di Messico ’70 meglio nota come La partita del secolo. Se ad Albertosi, Cera, Domenghini e Riva aggiungiamo anche Boninsegna, andato all’Inter l’anno prima, abbiamo metà della formazione dell’Italia formata da giocatori di quel Cagliari che dominò il campionato 1969-70. 

Il gol di Gigi Riva in Italia Germania a Messico ’70.

Undici guerrieri, tra cui un comandante indiscusso, diventato vero e proprio simbolo di questa terra: Gigi Riva. Un giocatore alto e secco, quasi sgraziato nelle movenze, ma con un sinistro potentissimo. Rombo di Tuono – così lo soprannominò Gianni Brera – era un uomo riservato, poco incline a presentarsi davanti alle telecamere, innamorato del pallone e della sua nuova casa, che non ha mai abbandonato. Nemmeno quando lo chiamò la Juventus, nemmeno dopo aver vinto uno scudetto, forse anche consapevole dell’irripetibilità dell’impresa. Gigi Riva, ultimo Re di Sardegna, lasciava l’isola solo per la Nazionale, alla quale non ha dato soltanto molti gol (Riva è ancora l’attaccante più prolifico dell’Italia con 35 reti in appena 42 partite giocate con la maglia azzurra), ma anche un perone. Proprio un grave infortunio con la maglia azzurra nell’ottobre del 1970 ha segnato irrimediabilmente la sua carriera e anche le sorti di quel Cagliari post scudetto. Nonostante una ripresa convincente e un’eccellente media gol ritrovata, negli anni a venire Riva dovette fare i conti con alcuni problemi muscolari. E ad appena 32 anni Rombo di Tuono appese gli scarpini al chiodo, dopo 156 gol in 289 presenze in Serie A, tutte ovviamente con un’unica maglia. 

Intorno a lui c’erano, oltre al portiere della Nazionale Albertosi, un libero roccioso come Cera, e un difensore più sbadato come Niccolai, famoso per i suoi autogol. C’erano gli inserimenti del brasiliano Nené, quando gli avversari si concentravano su Riva; c’erano Domenghini e Gori, arrivati proprio in quella stagione al posto di Boninsegna: il primo correva sulla fascia e metteva i cross per Riva, il secondo era una spalla perfetta per l’11 di Leggiuno. 

Era una squadra amalgamata e guidata alla perfezione da un altro uomo che si prenderà un posto importante nella storia del Cagliari, il filosofo Manlio Scopigno, che così parlava a proposito della sua squadra a inizio stagione:

“Il Cagliari di oggi vale potenzialmente molto, non teme nessuno, può lottare con chiunque. La squadra ha un’omogeneità che è frutto di anni di lavoro, mio e di altri, giocano ad occhi chiusi. Oggi il Cagliari è uno stupendo motore in rodaggio”.

AMICIZIA, SINTONIA E LIBERTÀ

“La squadra ha un’omogeneità che è frutto di anni di lavoro”. Vero, Scopigno aveva costruito alla perfezione la squadra dei sogni, lavorando ad ogni dettaglio ed azzeccando anche lo scambio azzardato con l’Inter che aveva costretto la società a rinunciare ad un calciatore del calibro di Boninsegna. In quel gruppo però c’era una sintonia che andava oltre al campo e si estendeva anche all’interno della grande casa dove vivevano tutti insieme molti dei giocatori dello scudetto. Come racconta Zignoli, “dieci scapoli in un unico appartamento” che condividevano tutto, e costruivano un’amicizia tra scherzi, risate e momenti difficili. Un grande gruppo costruito e guidato, come detto, dal Filosofo Manlio Scopigno, chiamato così per le sue frasi lapidarie, schiette, entrate nella storia delle cronache calcistiche. Una volta gli chiesero perché un giocatore come Brugnera andasse sempre in panchina e lui, dopo le domande insistenti del giornalista, rispose: “Brugnera ha il culo stretto e quindi stiamo più comodi in panchina”. Era filosofo anche nel suo modo di porsi con il gruppo: esigeva rispetto e puntualità, era attento agli schemi e alla tattica, ma lasciava che i suoi giocatori potessero trovare la propria serenità. Nessun ritiro, perché quello “lo fanno le squadre che stanno per retrocedere, e poi retrocedono lo stesso”. Ampie libertà lasciate ai giocatori: sono ormai famose le storie che raccontano di Scopigno che, dopo aver scoperto i suoi giocatori a far baldoria in tarda serata, invece che punirli decideva di unirsi al tavolo tra una partita di carte, un bicchiere di vino e una sigaretta. Poi, il giorno dopo, tutti puntuali al campo per costruire una squadra da scudetto.

L’allenatore del Cagliari dello scudetto, il Filosofo Manlio Scopigno.

Un altro calcio, altri tempi, altre realtà. La storia del Cagliari dello scudetto è il racconto del riscatto di un’isola, della coerenza di un progetto tecnico e di un’amicizia nata in una specie di esilio felice. Decisamente difficile pensare di replicare questo tipo di impresa perché, come detto, i calciatori di quella squadra erano tra i migliori in circolazione.

 

DanielD
Scritto da

Daniel Bonfanti